Giunti a questo punto, arrivati a questa fase della guerra che il terrorismo islamico sta conducendo contro di noi, l’Europa ha di fronte a sè tre problemi, gli ultimi due, soprattutto, di difficilissima soluzione.
1) Il primo, in teoria (ma solo in teoria) più semplice, riguarda il che fare con i foreign fighters, quelli che, magari in possesso di un titolo di cittadinanza europea, tornano in Europa dopo avere combattuto nelle fila dello Stato islamico.
2) Il secondo — di assai più ardua soluzione — riguarda il quantum di libertà che l’Europa è disposta a sacrificare in cambio di una maggiore sicurezza, di una maggiore capacità di difendere la vita dei propri inermi cittadini dalle azioni di guerra condotte dai «soldati» — emuli degli antichi guerrieri della fede islamica — impegnati nel jihad.
3) Il terzo problema, infine, riguarda quali prezzi, politici e sociali, occorrerà pagare per ottenere l’attiva cooperazione delle comunità musulmane europee ai fini dell’identificazione, dell’isolamento e della caccia ai jihadisti.
1) Sulla prima questione non dovrebbe essere difficile trovare la soluzione. Si tratta di decidere a livello europeo, e di tradurre nelle legislazioni nazionali, norme che dichiarino i reduci combattenti dello Stato islamico criminali di guerra — gente che ha commesso crimini contro l’umanità e che potrebbe commetterne ancora — da ingabbiare e condannare a lunghissime pene detentive.
Rimarrebbero altrimenti a piede libero giovani esaltati, già colpevoli di efferatezze, addestrati all’uso delle armi e combattenti esperti. Non c’è nessuno strappo rispetto ai principi liberali (è solo un elementare gesto di autodifesa) se costoro vengono messi in condizione di non nuocere. È assurdo che queste decisioni non siano già state prese.
2) Molto più complesso è il secondo problema. Riguarda il dilemma libertà/sicurezza. Riguarda la questione, così difficile da trattare per le democrazie liberali, dei poteri d’emergenza. Molti di coloro che attentano alla vita degli europei non sono foreign fighters, sono persone che si sono radicalizzate di recente.
La questione, nella sua drammaticità, è semplice: o li si ferma prima che colpiscano o ci si deve rassegnare a che muoiano tante persone inermi. Ma se li si vuole fermare prima che agiscano, quando ancora si limitano a manifestare idee jihadiste e a frequentare altri radicalizzati come loro, allora si tratta di capire come ciò possa conciliarsi con la tutela della libertà di parola e di espressione.
Limitarsi ad espellerli (misura saltuariamente utilizzata dai governi europei, e anche dal nostro) non è sufficiente. Sia perché una parte è composta da cittadini europei ai quali tale provvedimento non si applica. Sia perché l’espulso resta comunque una bomba pronta a esplodere da qualche altra parte.
Lo espelli dalla Francia o dall’Italia e quello trova il modo di andare a uccidere (o a reclutare coloro che uccideranno) in Germania o in Spagna.
Che fare dunque? È evidente che tocca all’Europa (nel senso dell’Unione Europea) dimostrare a chi ne contesta l’utilità che essa serve a qualcosa anche sul fronte della sicurezza. Per evitare che norme tese a bloccare i jihadisti quando rappresentano ancora solo una potenziale minaccia diventino il varco attraverso il quale, col tempo, possano passare provvedimenti illiberali in grado di colpire tutti, occorrono in Europa patti chiari, decisioni limpide, paletti ben piantati.
Ma qualcosa bisogna comunque fare. Chi dice di no, chi dice che non servono misure ad hoc per fronteggiare il terrorismo islamico (e che dobbiamo solo rassegnarci a conviverci) ricorda la magnifica battuta di Ennio Flaiano sui rivoluzionari che fanno le barricate usando il mobilio altrui.
Essi giocano sulle probabilità: assumono, correttamente, che sia poco probabile che fra le prossime vittime degli attentati ci siano loro stessi o i loro cari o i loro amici.
I liberali hanno sempre saputo distinguere fra le situazioni in cui la sicurezza è relativamente garantita e le situazioni in cui non lo è, hanno sempre compreso che, nel secondo caso, se si tratta di sacrificare alcune libertà, allora è meglio farlo de jure, dopo una discussione pubblica, piuttosto che di fatto, tacitamente, nascostamente, sotto la pressione dello stato di necessità.
3) Il terzo problema riguarda i futuri rapporti con le comunità musulmane europee. I governi dovranno negoziare (plausibilmente, lo stanno già facendo) con quelle comunità. Si tratta di chiarire i contenuti dell’inevitabile scambio politico (sollecitare la loro cooperazione con gli apparati europei di sicurezza in cambio di cosa?).
È preoccupante che non se ne discuta apertamente. Bisogna decidere che cosa sia negoziabile e che cosa no, quali rivendicazioni siano accettabili e quali siano invece inaccettabili. Si tratta anche, negoziando, di non legittimare le componenti più integraliste di quelle comunità.
Spesso in Europa si commette il terribile errore di chiamare «moderati» gli integralisti che non uccidono. Costoro non uccidono ma sono, culturalmente, parenti stretti di quelli che lo fanno. Si tratta di selezionare con cura gli interlocutori.
Affinché il prezzo pagato in cambio di un aiuto contro il terrorismo, non sia troppo alto, non sia tale da allontanare, in capo a qualche anno, l’Europa da se stessa, dalla propria storia, dai propri principi. Prima cominciamo a parlarne e meglio è. [spacer height=”20px”]
Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 19 agosto 2017