Poiché il nero è sempre di moda, quando si afferma che un dato colore è ” the new black”, si intende dire che è quello in voga al momento. Ecco, in questo periodo in Italia la flat tax is the new black.
L’aliquota unica di tassazione sulle persone fisiche, infatti, è alla base del programma di due importanti partiti, Forza Italia e Lega Nord, di una formazione nascente, Energie per l’Italia di Stefano Parisi ed è supportata da vari esponenti di Fratelli d’Italia.
Il Pd, d’altronde, non può essere pregiudizialmente contrario, visto che il suo governo l’ha introdotta… per gli stranieri. Com’è noto un non residente che venga o torni ad abitare nel Belpaese pagherà 100.000 euro all’anno al fisco e sarà a posto: addirittura un’imposta regressiva, visto che per un benestante manager che guadagna 2 milioni rappresenterebbe solo il 5% del reddito!
Quanto al M5S, per ora rimane aggrappato al suo sussidio flat, cioè il reddito di cittadinanza.
Finora la proposta più articolata di flat tax proviene dall’Istituto Bruno Leoni, che si è reso promotore di un ambizioso disegno di riforma complessiva del sistema fiscale e di quello di welfare, di cui l’aliquota unica è una colonna portante.
In breve, il gruppo di ricercatori coordinati dall’economista Nicola Rossi ha elaborato un progetto nel quale si applica un’aliquota del 25% per tutte le principali imposte previste dal sistema tributario italiano, tra cui Irpef, Ires e Iva.
Per rispettare il dettato costituzionale della progressività dell’imposta, i primi 7.000 euro sarebbero esenti dalla tassazione e la cifra aumenterebbe a seconda della situazione familiare. La famiglia, peraltro, gioca un ruolo cruciale nella riforma, tant’è che l’Irpef sarebbe applicata sulla base del nucleo familiare.
Inoltre, si prevede l’abolizione dell’Irap, dell’Imu e della Tasi. Quest’ultima verrebbe sostituita con un’imposta sui servizi urbani (Isu) d’esclusiva competenza municipale e strettamente legata alla fruizione e alla qualità dei servizi offerti.
L’Istituto lancia pure l’idea di un “minimo vitale”, un sussidio differenziato geograficamente e indipendente dalla condizione professionale dei singoli. Un ulteriore pilastro consiste nel cambiamento profondo rispetto al finanziamento e alla fornitura di alcuni servizi pubblici, in particolare nel campo della sanità, mantenendo la gratuità per buona parte dei cittadini ma, allo stesso tempo, imponendo il costo ai più abbienti attraverso la possibilità o di pagare il premio di un’assicurazione allo Stato o di scegliersene una privata.
Una volta completata, la riforma abbatterebbe contemporaneamente la pressione fiscale e la spesa pubblica del 4% e nei calcoli prudentemente non si è tenuto conto dell’effetto espansivo sull’economia di un tale cambiamento.
Di fronte ad una proposta di questo genere le domande sono tre: è efficiente? È equa? È praticabile?
Efficienza
Dal punto di vista dell’efficienza credo che la risposta sia positiva. Un sistema di tassazione deve essere il più semplice possibile e non dare incentivi a lavorare meno (conseguenza di aliquote fortemente progressive) ed investire per motivi di convenienza fiscale e non economica.
Un nutrito gruppo di paesi da anni ha adottato la flat tax e non ne ha risentito, anzi, se vediamo lo strepitoso successo economico di chi ce l’ha da più tempo, Hong Kong, empiricamente il verdetto è favorevole.
La riforma del welfare, che responsabilizza chi consuma i servizi pubblici e toglie l’intermediazione della pubblica amministrazione nel sostegno ai più deboli (vengono dati soldi in una forma sola, invece che molteplici servizi, esenzioni, sconti, sussidi) va nella giusta direzione.
Equità
Per quanto riguarda l’equità, dipende dal punto di vista filosofico che si adotta. Per chi è aristotelico e pensa che la giustizia distributiva consista nel dare a ciascuno secondo i suoi meriti, la flat tax con la sua proporzionalità è perfetta. Per un marxista un po’ meno, diciamo.
Praticabilità
È praticabile? Visto l’attivismo della Corte Costituzionale non sono sicuro che la soglia di non tassabilità iniziale di 7.000 euro sarebbe considerata soddisfacente rispetto al principio di progressività dell’imposta. Forse un approccio a doppia aliquota, ad esempio 20%-30% più la detrazione, avrebbe maggiori possibilità di sopravvivere al vaglio dei giudici del Palazzo della Consulta.
Inoltre, per mantenere il delicato equilibrio dei conti, tutto il pacchetto dell’Istituto Bruno Leoni dovrebbe essere adottato, il che rende l’impresa più ardua. Infine, il meccanismo della corresponsione del minimo vitale è un pochino macchinoso ed implica un’efficienza della pubblica amministrazione che oggi non c’è.
Però il messaggio lanciato dall’Istituto è potente e, viste le recenti preoccupanti statistiche sulla povertà in Italia, non si può certo dire che l’Irpef progressiva sia stata finora una gran cura di giustizia sociale.
Realizzare il tutto sarà difficile ma, come avrebbe detto il più realista e razionale degli scienziati sociali, Max Weber, l’uomo non riuscirebbe mai a raggiungere il possibile se non tentasse l’impossibile. [spacer height=”20px”]
Alessandro De Nicola, La Repubblica 18 luglio 2017