Una volta il filosofo inglese Michael Oakeschott, che di Friedrich von Hayek era amico e verso cui aveva debiti di gratitudine, scrisse, quasi in sordina, che il grande economista austriaco aveva elaborato un piano per superare ogni piano in economia.
È una acuta osservazione critica a cui ho sempre dato molto peso perché, in ultima istanza, denota una diversa formazione, più filosofica quella di Oakeshott, di due pensatori che vanno senza dubbio annoverati fra i grandi del Novecento.
L’amichevole critica di Oakeshott a Hayek mi è venuta in mente nel leggere il volume Venticinque% per tutti. Un sistema fiscale più semplice, più efficiente, più equo, a cura di Nicola Rossi, pubblicato da IBLLibri.
Si tratta di uno studio breve ma dettagliato, che pone capo a una concreta e articolata proposta di flat tax o “tassa piatta”, cioè di aliquota unica, come cura per il nostro bizantino sistema fiscale. Una proposta che, per iniziativa dell’Istituto Bruno Leoni di Milano, diretto da Alberto Mingardi, sta un po’ agitando le acque, in questi caldi giorni di luglio, del dibattito culturale a ridosso della politica italiana.
E che, dividendo il campo fra fautori e detrattori, ha costretto un po’ tutti a ragionare, non (solo) per partito preso o servendosi di facili slogan, ma, una volta tanto, entrando nel merito delle questioni in modo più o meno approfondito.
Si tratta di questioni, fra l’altro, che riguardano, attorno al tema fiscale, nientemeno che il nostro stallo come Paese e le possibilità per noi di avere un futuro. Alla luce di questo risultato, provocato e voluto, anche quel che di astrattamente “ingegneristico” e deterministico, che mi sembra di intravedere nella proposta dell’Istituto Leoni, direi che tutto sommato passa in secondo piano.
Tuttavia, non avendo una competenza specifica e tecnica per entrare nei dettagli del progetto, limitandomi di necessità a considerare le idee in generale, è mio dovere rendere esplicito in questa sede qualche dubbio.
Certo, Nicola Rossi è persona troppo esperta e attenta per non considerare i problemi nella loro complessità, e quindi per non considerare l’intimo legame che certe questioni hanno con certe altre.
Non vede perciò la flat tax in contraddizione con l’idea di una misura universale di contrasto alla povertà, o “minimo vitale”, pur nella consapevolezza che le proposte di “reddito di cittadinanza” che sono state avanzate finora nel dibattito politico sono quasi sempre confuse e incoerenti.
Ciò che lui ritiene necessario è riscrivere l’intero insieme di benefici e trasferimenti da parte dello Stato, secondo un organico progetto che tenga conto delle possibili obiezioni e che si proponga, per l’appunto, di essere il più razionale possibile. Di esso, il libro dà saggio.
È proprio questa “razionalità” di fondo, “sistemica”, questo estremo razionalismo calato dall’alto, l’elemento che meno mi convince, forse a confermare a mia eterna fama di bastian contrario. Ancora una volta sembra infatti che la politica italiana, quella politica senza potere di cui parlava qualche giorno fa Ernesto Galli Della Loggia, abbia per forza bisogno di uno choc, di “terapie d’urto”, per emergere dal pantano in cui si è situata.
Come poi queste terapie vadano generalmente a finire, l’esperienza dovrebbe avercelo mostrato: il sistema, come una vera piovra, le assimila e “tradisce”. Ma, mi chiedo: potrebbe essere altrimenti? Non sarebbe forse il caso di uscire da un modo di ragionare così poco realistico, antistoricistico, in definitiva antipolitico?
Che poi la direzione verso cui muoversi e per la quale battersi, seppure appunto a un livello politico e non programmatico e di piano, sia, per noi liberali, quella che da sempre segue in Italia, in controtendenza rispetto all’ideologia dominante, l’Istituto Bruno Leoni, mi sembra indubbio.
Ci si deve cioè battere per la semplificazione e la delegificazione a ogni livello, compreso ovviamente quello fiscale: troppe norme non aiutano la trasparenza e aumentano quel potere di intermediazione fra cittadino e Stato che genera inefficienza, corruzione, incertezza.
Le tasse poi vanno assolutamente diminuite (casomai favorendo meccanismi di concorrenza fiscale) per liberare quelle energie (un tempo si sarebbe detto quegli “spiriti vitali”) che solo possono creare la ricchezza che gli astratti welfaristi vorrebbero distribuire semplicemente.
Cioè senza accorgersi che la torta si farebbe (già si è fatta) sempre più piccola: un paese che tassa e ridistribuisce finisce per segare le gambe su cui si regge, se non crea prima ricchezza!
Che la ricchezza personale, che si riflette poi sempre in quella generale, vada incentivata e premiata, anche al di fuori di ogni astratta idea di “equità” e “giustizia sociale”, e al di fuori di ogni principio di progressività fiscale, è certo verità troppo forte per i palati italici.
Rossi, pensando agli effetti pratici della sua proposta, come è giusto che sia per un economista che vuole offrire strumenti al principe (un principe questa volta liberale, vivaddio!), insiste pertanto più del dovuto sul principio di equità, da un lato, ed escogita una serie di stratagemmi per salvare il dogma della progressività fiscale sancito in Costituzione, dall’altro.
Ma bene ha fatto Angelo Panebianco, allargando opportunamente il discorso, a individuare nella progressività, e in altri passaggi “socialisteggianti” della nostra Costituzione, il totem da abbattere: il fosso da saltare per impostare un discorso seriamente riformatore in senso liberale del nostro Stato.
Aver contribuito a rimettere al centro il tema costituzionale, è così un’altro degli effetti positivi provocati dalla meditata provocazione di Rossi e dell’Istituto Leoni. Al di là delle possibili obiezioni di metodo quali quella che qui si è dichiarata, per semplice onestà intellettuale.
Corrado Ocone, www.huffingtonpost.it 24 luglio 2017