Tra i tanti fattori che ostacolano la crescita dell’economia italiana, la giustizia amministrativa finisce regolarmente tra i soliti sospetti, come ci ha ricordato Gerardo Villanacci ( Corriere della Sera , 4 agosto). Ma, replica Giulio Napolitano (7 agosto), qual è l’alternativa?
Far confluire la giustizia amministrativa in quella ordinaria porterebbe solo a un allungamento dei tempi e a una despecializzazione dei giudici.
In effetti, non è che i Tar e il Consiglio di Stato sfigurino rispetto alla magistratura ordinaria: le loro decisioni che incidono sull’iniziativa economica, semplicemente, fanno più spesso notizia di quelle dei giudici civili.
Se l’amministrazione della giustizia frena l’iniziativa economica, privata o pubblica, e gli investimenti, non è perché è articolata in un certo modo, ma perché riflette una cultura giuridica essa stessa di ostacolo all’impresa e all’innovazione.
Più precisamente, il problema è la concezione che i magistrati (e di riflesso gli avvocati) hanno del diritto e di sé.
Il diritto, per il giudice italiano, non è strumento che serve gli individui e le loro formazioni sociali, per agevolarne le interazioni, ma ordine superiore al quale la realtà economica deve piegarsi.
Il ruolo del giudice è quello non di dare una soluzione prevedibile a una controversia sulle base di regole di interpretazione ben definite (riducendo l’incentivo stesso a ricorrere ai tribunali), ma, quando va bene, di trovare la soluzione che nel caso singolo meglio realizza il valore costituzionale della solidarietà e/o che assicura l’esercizio della proprietà e della libertà di iniziativa economica entro i confini della loro funzione o utilità sociale.
Le ragioni dello sviluppo economico, sia pure compresse nella più dignitosa dizione dell’esigenza di certezza del diritto o in quella più mondana di «buon senso comune», non hanno alcuna influenza sul sistema di valori che, implicitamente o esplicitamente, è alla base delle sentenze.
Ed è ovvio che la lettera della norma non conta: tanto, è scritta male. Ma è un circolo vizioso: perché Parlamento e governo dovrebbero sforzarsi di scrivere bene le norme, se poi i giudici hanno enormi margini per re-interpretarle a proprio piacimento?
Né aiuta la concezione che spesso (e con le dovute eccezioni) i magistrati italiani, come tanti funzionari pubblici, hanno di sé: non di soggetti che prestano un servizio ai singoli utenti che si rivolgono loro, ma di titolari di un potere che la cultura giuridica prevalente, come si è appena visto, rende quasi assoluto.
Di qui, nella peggiore delle ipotesi, i casi di corruzione che purtroppo non risparmiano le magistrature ovvero, secondo un malcostume purtroppo diffuso, l’esercizio della funzione come dispensa di favori a questa o quella parte, a questo o quell’avvocato.
Si può ovviamente dissentire dall’idea che l’obiettivo della crescita economica o anche solo l’aspirazione alla certezza del diritto possano giustificare la riduzione dei margini che un giudice ha per venire incontro, in piena buona fede, alla parte più debole di un contratto, al consumatore che non aveva capito che servizi stesse acquistando, e così via.
Il punto è che non sono il riparto della giustizia tra ordinaria e amministrativa, la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi o le tecnicalità dell’ordinamento giudiziario i veri ostacoli all’iniziativa economica.
È piuttosto una cultura giuridica stratificatasi nel corso di decenni: ritocchi ai codici o gattopardesche riorganizzazioni non la scalfirebbero.
Lungi da me l’idea di concludere con un proclama per la rifondazione della cultura giuridica italiana. Ma chi avesse sinceri istinti riformatori non potrebbe esimersene. [spacer height=”20px”]
Luca Enriques, Il Corriere della Sera 12 agosto 2017