La piaga di Banca Etruria non è l’unica, non è chiusa e non si limita a quella bancarotta. Si tratta di un’infezione ancora attiva e assai pericolosa. Metterci dentro il dito non è sadomasochismo, ma il minimo che si possa e debba fare per evitare di arrecare danni ancora più gravi all’intero sistema del credito. Che è come dire alla nostra vita economica e civile.
Quando il bubbone scoppiò, in modo niente affatto imprevedibile, governanti e commentatori si precipitarono a dire: bisogna tutelare i risparmiatori.
Qui la pensavamo in modo diverso: i risparmiatori sono tutelati dalla legge, ivi compresa quella europea sulle risoluzioni bancarie (bail in); prima di distribuire soldi di altri si deve accertare se ci sono responsabilità amministrative e penali, eventualmente punendo i responsabili.
Più che un’eventualità era ed è una certezza, ma qui si difende il valore della legge e della civiltà giuridica, quindi non si deroga mai alla presunzione d’innocenza.
Come era prevedibile, prevalsero i finti soccorritori. A due anni di distanza i procedimenti penali sono ancora aperti e ora è stato depositato l’atto di citazione, per conto del commissario liquidatore, quantificando, per la sola Banca Etruria, il quasi 580 milioni il danno, con i risarcimenti chiesti a carico degli amministratori.
Il presupposto della citazione è anch’esso oggetto di giudizio, ma, prescindendo dal caso specifico e con riferimento all’andazzo generale, mi permetto di darlo come realtà: amministrazione clientelare e camarillesca del credito, concesso più per cordate e legami personali che con attenzione alla destinazione produttiva e alle garanzie.
È appena il caso di ricordare che, in Italia, abbiamo il triplo di crediti deteriorati, quando non direttamente inesigibili, della media europea. Il triplo! E vale la pena ricordare che quando ce lo fanno osservare sembra quasi che ci si offenda. E qui arriviamo al punto.
Se la giustizia non funziona, se i suoi tempi da bradipo salvano i colpevoli, se i risarcimenti si chiedono dopo che si sono volatilizzati i patrimoni con cui finanziarli, il messaggio è: se volete essere onesti noi tutti vi ringraziamo, ma se sarete disonesti, passata la tempesta di carta dei primi tempi, nessuno ve la farà pagare.
Più che la certezza della pena, di beccariniana memoria, la certezza dell’impunità.
A fronte della quale, con solo apparente contraddizione, si produce un’incivile cultura giustizialista, sicché tutti gli indagati sono considerati colpevoli, e una miserabile condotta della carità, sicché si pretende di risarcire i truffati senza mai avere individuato i truffatori o anche solo accertato l’esistenza della truffa.
Avendo il triplo degli npl (crediti deteriorati) è ragionevole che si chieda di rientrare nella normalità in modo graduale. Perché farlo immediatamente sarebbe pur giusto, ma impossibile e strozzerebbe ulteriormente il credito.
Ma se, contemporaneamente, si manda in mondovisione lo spettacolo dell’impunità, mettendone il costo a carico delle altre banche e del contribuente, chiunque è autorizzato a concludere che l’Italia non intende cambiare e vuole tenersi stretti i propri vizi mortali.
Solo la viltà e l’incapacità di tanti, economisti da rimorchio e commentatori da diporto compresi, consente di nascondere ciò dietro una geremiade stracciona avverso l’azione della vigilanza europea.
Per questo il caso Etruria è non solo un’infezione ancora attiva, ma in corso di diffusione. Il che, a due anni dalla bancarotta, è spettacolo ripugnante.
Davide Giacalone, 12 ottobre 2017