È lo scoglio contro cui possono infrangersi le previsioni economiche come altre più o meno plausibili ipotesi sul futuro. È l’incognita-sicurezza.
Si tratti dell’evoluzione della crisi fra Stati Uniti e Corea del Nord, o della minaccia rappresentata dal terrorismo islamico, o dalle manovre poste in essere da Stati autoritari ai danni dei Paesi democratici, i problemi della sicurezza, per lo meno in Europa, sono diventati molto più gravi e pressanti di quanto fossero ancora un decennio fa.
Per non parlare dei «favolosi» anni Novanta, quando — prima dell’11 Settembre 2001 — vivevamo in quella atmosfera rilassata, piacevole, che segue sempre la fine di una guerra, persino la fine di una Guerra fredda.
Da molto tempo l’atmosfera è tutt’altra. Per ragioni politiche, naturalmente, amplificate però, e anche esasperate, dagli sviluppi tecnici. Fino a poco tempo addietro non era pensabile che le elezioni nei Paesi democratici potessero essere pesantemente condizionate dall’azione intossicante di hacker professionisti al soldo di potenze autoritarie (leggi: Federazione russa).
Ma è accaduto nelle elezioni presidenziali americane. E c’è stato anche un tentativo russo di influenzare le elezioni presidenziali francesi. D’ora in poi, tutti i Paesi democratici correranno il rischio di manipolazioni dall’esterno. Il ministro degli Interni Marco Minniti, come i suoi colleghi delle altre democrazie, sta predisponendo barriere.
Minniti sta cercando di aumentare la cyber-sicurezza del nostro Paese, in vista delle prossime elezioni, per difenderlo dai tentativi di manipolazione esterna. È giusto e doveroso. Gli esperti però dicono che, in questa materia, difendersi è molto più difficile e costoso che attaccare.
Significa che nelle elezioni che si terranno nelle democrazie occidentali, d’ora in poi, potranno esserci continue intrusioni.
Si consideri anche un altro fatto, ancor più grave. Non c’è solo la possibilità di manipolazioni politiche. In virtù dell’uso aggressivo delle tecnologie informatiche, c’è anche un forte rischio di destabilizzazione delle relazioni internazionali sul piano militare.
La guerra cibernetica sposta l’equilibrio dalla difesa all’attacco (nel senso che diventa, anche in questo caso, più difficile e costosa la difesa rispetto all’attacco) e rende più pericolose e meno controllabili di un tempo le crisi internazionali.
Gli sviluppi tecnici, però, esasperano condizioni di insicurezza le cui cause di fondo sono sempre politiche. Nel caso dell’Europa le condizioni di insicurezza dipendono da ciò che accade a Sud, dal disordine mediorientale, grande generatore di radicalismi e terrorismi, nonché, a Est, dalla pressione russa sui confini orientali della Nato.
L’insicurezza europea è aggravata dall’allentamento — già in corso prima dell’elezione di Donald Trump ma che ha subito ora un aggravamento — delle relazioni atlantiche. Anche se sicuramente riuscirà a fare molti danni, Trump prima o poi passerà. È bene che gli europei si rendano conto che ricucire strappi e buchi nelle relazioni atlantiche sarà allora essenziale per la loro sicurezza.
La difesa europea, oggi tanto sponsorizzata dal presidente Macron, se ci sarà, sarà forse una buona cosa. Ma non basterà a sostituire le relazioni atlantiche.
Solo il «partito antiamericano», così forte in Europa, ha sempre sostenuto che fosse possibile costruire un giorno una Unione Europea militarmente autosufficiente. Ma è dubbio che ci abbia mai davvero creduto. In genere, chi parla di una Europa autosufficiente immagina semplicemente di sostituire gli Stati Uniti con la Russia quale garante della sicurezza europea.
In materia di sicurezza l’Europa balbetta e resta inattiva persino quando è in gioco la sopravvivenza fisica dei propri cittadini.
La sconfitta militare dello Stato Islamico è un’ottima cosa ma se verrà mal gestita provocherà una valanga di guai. La provocherà in Medio Oriente ove sono già cominciati i regolamenti di conti fra i gruppi che lo hanno combattuto (che fine faranno i curdi? Con lo Stato Islamico in agonia, i curdi non saranno più di alcuna utilità militare e sono in molti, da quelle parti, ad aspettare solo l’occasione per massacrarli).
La provocherà anche in Europa con il ritorno di migliaia di reduci, di ex combattenti dello Stato Islamico. Giovani, fanatici, addestrati all’uso delle armi. Basta che solo un pugno di loro si attivi e qui in Europa ci saranno morti per ogni dove.
Sarebbe ovvio e necessario dichiararli criminali di guerra e toglierli dalla circolazione prima che colpiscano. Ma pare che non si possa.
Perché?
Perché i cosiddetti foreign fighters non sono (ancora?) per le opinioni pubbliche europee dei «mostri». Ciò ha fin qui impedito agli Stati democratici di approntare difese legali adeguate. Dal G7 della sicurezza attualmente in corso a Ischia forse uscirà qualcosa di buono (soprattutto per contrastare la propaganda jihadista sul web) ma è difficile che ne vengano decisioni efficaci per neutralizzare i foreign fighters.
Purtroppo, sappiamo che quegli ex combattenti si trasformeranno in mostri (e per conseguenza quelle difese legali verranno infine erette) solo quando alcuni di loro entreranno in azione. Con conseguenze devastanti.
Sarebbe logico prevenire piuttosto che attendere l’inevitabile. Interpellati uno per uno, gli europei, i singoli individui, a maggioranza, sono perfettamente in grado di comprenderlo. Un gruppo organizzato di individui(una società), invece, non è in grado di farlo. Di qua,l’intelligenza individuale. Di là, l’ottusità collettiva. [spacer height=”20px”]
Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 20 ottobre 2017