La sinistra non sa offrire ai suoi elettori una prospettiva politica credibile perché non ha una identità precisa, condivisa dalle diverse anime che la compongono. Per recuperarla, essa “si attacca anche all’usato sicuro dell’antifascismo”, scrive Luigi Covatta su “Il Mattino” di Napoli. Ma è uno sforzo vano, improduttivo.
È inutile “rifugiarsi nella retorica del l’antifascismo”, che né fotografa la realtà né tantomeno può fungere da surrogato per quelle idee che non si hanno.
È una tesi fatta propria anche da altri commentatori (pochi in verità) che hanno messo in dubbio, nei giorni scorsi, che in Italia esista un’emergenza fascismo, così come presentata dai mezzi di comunicazione di massa: una vera e propria “bolla mediatica”, l’ha definita Alessandro Campi su “Il Messaggero”.
Nessuno dei commentatori è però andato alla radice storica della questione, che è opportuno qui ricordare. Il fatto è che effettivamente l’identità di buona parte della sinistra, soprattutto quella comunista, si è costruita, nell’Italia repubblicana, sull’antifascismo.
In un’intervista concessa domenica scorsa a “La repubblica”, sconsolato, Walter Veltoni si chiedeva: “Se togliamo la differenza tra destra e sinistra, o tra fascismo e antifascismo, cosa resta?”.
È una domanda che tradisce, nella sua apparente ingenuità, il vero punto della questione: la sinistra ha oggi necessità di rassicurazioni, cioè di rassicurarsi prima di tutto sulla sua esistenza e sulla non inessenzialità della sua funzione nel mondo contemporaneo.
Posta come la pone, la questione di Veltroni si richiama però a un passato che eludeva una questione di non poco conto: una questione che oggi più non può essere rimossa e che, ben posta, mostra la vanità di ogni tentativo di ritrovare da questa parte l’identità perduta.
Ciò che viene rimosso è il fatto che è più lecito parlare di un antifascismo generico, dimenticando che nel nostro paese sono esistite in modo consistente nel passato, ed esistono in modo meno rilevante oggi, forze antifasciste che non credono ai valori propri di una società aperta o liberale (e che perciò, per alludere a una nota boutade di Ennio Flaiano, sono “fasciste” a loro volta).
Storicamente l’antifascismo è servito in Italia per dare un collante comune alle forze che avevano dato vita, con diversi intenti, alla Costituzione repubblicana. Esso nei fatti era strumentale e serviva ad accreditare una forza che liberale non era ma che al processo di liberazione dal fascismo aveva dato un contributo non indifferente.
Oggi che quella forza più non c’è, non è più tempo di ipocrisie: non si può essere antifascisti senza essere contemporaneamente contro ogni potere illiberale o totalitario, a cominciare da quello comunista. Fare i conti con questa consapevolezza, non rimuoverla né rimpiangerla nostalgicamente, sarebbe perciò un passo sensato per le forze di sinistre.
Servirebbe forse proprio a ben definire una nuova identità, che per forza di cose deve essere fondata su basi ideali del tutto diverse da quelle del passato.
Corrado Ocone, L’Huffington Post 6 dicembre 2017