Roberto Nordio, sulle pagine del Messaggero, interviene sulla legittima difesa e su una recente sentenza che ha fatto molto discutere
Nella seconda metà del ‘900, tra le tante stravaganze di una filosofia incerta, ebbe un temporaneo successo la tesi, avanzata da Jacques Derrida, della destrutturazione del linguaggio e dei concetti. Nessuno ha mai capito cosa significasse veramente, e quindi è stata presa molto sul serio.
Riassumendo le conclusioni degli epistemologi, si può definire come la scomposizione di un ordine formale per liberare nuove potenzialità espressive: cioè, in parole povere, per invertire le categorie del buon senso. Come dire che se può sembrar normale che il cane morda il postino, è ancora più normale che sia il postino a mordere il cane.
La recente sentenza, riportata da un quotidiano di Brescia, a seguito della quale il ladro è stato condannato a una pena inferiore rispetto a quella della vittima. si inserisce a buon diritto in questa logica postmoderna, nulla essendo più conseguente, in un’ottica di egualitarismo solidale che il bandito debba esser tutelato, almeno entro certi limiti, nell’esercizio delle sue funzioni.
Ma veniamo al fatto. Nella notte del 29 gennaio Giuseppe Chiarino, quarantenne di Calcinatello, affacciandosi dalla finestra per un trambusto sottostante, ha visto una banda di ladri che stava trafugando un intero bancomat.
Da buon cittadino. O così credeva, ha imbracciato il fucile, ha sparato, e si è trovato im putato di tentato omicidio.
Morale: II ladro, un pregiudicato appartenente a una banda di professionisti rumeni, ha patteggiato la pena di due anni e quattro mesi. Il Chiarini quella di due anni e otto, di quattro mesi più alta. E si presume che dovrà anche risarcire il danno in sede civile.
Ora, è principio consolidato – e ragionevole – che le sentenze si possano commentare soltanto dopo aver letto le carte processuali. E se l’imputato ha patteggiato, evidentemente il suo legale lo ha consigliato così.
Nessuno dunque dubita che i magistrati abbiano fatto il loro dovere applicando con scienza e coscienza la legge.
Ma è proprio questo il punto.
Che la nostra legge sulla legittima difesa, pur rimaneggiata dieci anni fa, è sbagliata. O meglio, e inserita In un codice di matrice autoritaria, che lascia poco o niente spazio ai diritti dei cittadini, primo fra tutti quello dell’autodifesa.
Il legislatore questo lo sa. Per di più, essendo sensibile all’opinione pubblica, cioè ai potenziali consensi elettorali, sta cercando di cambiarla. Ma in realtà si è impantanato per due ragioni.
1) La prima, che c’è ancora una forte resistenza moralistica al riconoscimento del diritto all’autotutela: diritto che, si badi, non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con il farsi giustizia da sé.
2) La seconda, che ha preferito concentrarsi su altri provvedimenti, come lo ius soli e il fine vita, i quali, per quanto assai importanti, ed anzi proprio per questo, meriterebbero minor fretta e maggiore riflessione.
A margine, si sta anche preoccupando di introdurre nuovi reati di apologia del fascismo e minaccia pene severe a chi vende il vino con la faccia del Duce.
E questo è un fatto significativo.
Infatti il nostro codice penale, in base al quale vengono comminate e irrogate le sanzioni, è datato 1930. Di conseguenza. mentre l’immagine di Mussolini dovrà sparire, sotto minaccia di pesanti condanne. dagli scaffali delle enoteche. la sua firma continuerà a campeggiare sul frontespizio di quello stesso codice che il legislatore si ostina a mantenere.
Ecco l’ultimo esempio della decomposizione della logica di cui parlavamo.
Ma è un esempio ben più grave, perché non riguarda una sentenza isolata, ma un intero sistema normativo che grava su tutti i cittadini, e che è completamente scombinato. Come dire, esasperando il paradosso del postino che ormai quest’ultimo abbaia perché il cane porta le lettere. [spacer height=”20px”]
Roberto Nordio, Il Messaggero 6 dicembre 2017