L’ossessione per le fake news che sembra animare la classe intellettuale e giornalistica, e di rimbalzo certe parti di quella politica (come mostrano le recenti proposte di regolamentazione per via legale), richiama ad una idea di “purezza” o “verità” che non può appartenere a molti dei giochi linguistici che nascono nell’ambito delle relazioni umane.
In primo luogo alla politica, in cui il simbolico e l’immaginario, e quindi anche l’iperbole, hanno avuto nella storia un ruolo predominante.
Non in un rapporto unidirezionale fra chi illude (il politico) e chi è illuso (il cittadino qualunque), ma in un rapporto fatto di sottintesi, sfumature, e anche di ricerca da parte dei cittadini di “illusioni” e “miti”, certo a buon mercato, ma della cui natura spesso non si è affatto inconsapevoli.
Questa natura della politica è venuta temperandosi molto in epoca moderna, con il trionfo del razionalismo, fino all’esasperarsi di esso con le ideocrazie (e spesso tanatocrazie) novecentesche.
La politica è stata vista come il mezzo per realizzare un’idea generale, un progetto di trasformazione del mondo umano o di vaste parti di esso: in una parola, come un’opera di ingegneria.
La tendenza che è propria anche delle nostre democrazie, e prima ancora direi delle nostre teste quando affrontiamo questioni politiche, cioè il voler tutto normare e regolare, “sistemare” per via di legge, ne è forse l’ultimo riflesso.
Che diventa tanto più cogente quanto più la politica viene affidata ai semplici “tecnici” che, come faceva ieri Mario Monti sul “Corriere della sera”, non possono, dal loro punto di vista, cioè da quello di una politica ridotta a tecnocrazia, che richiamare alla serietà dei programmi e delle narrazioni e stigmatizzare le “favole” e le illusioni del discorso politico.
Cosa che un politico non può permettersi di fare mai fino fondo, appartenendo la sua arte anche al regno del simbolico e comunque non proprio a quello della ragione tecnica. Considerate le cose da questo angolo prospettico, la politica trasformatasi in intrattenimento e in magico illusionismo di questi ultimi tempi assume forse un altro valore.
Da una parte, essa è certo l’apoteosi della “menzogna” (le promesse mirabolanti di questa ultima campagna elettorale vengono fatte ben sapendo di non poterle poi realizzare: ma chi, fra gli elettori, ci crede?); dall’altra, è anche chiaro che in questo mix fra il razionalismo astratto delle proposte e la consapevole impossibilità di realizzarle, in questo ingegnerismo senza sostanza, ciò che viene a mancare è proprio un’idea plausibile di politica. E, in particolare, di politica liberale: ciò che un politico dovrebbe fare è stimolare le forze attive presenti nella società, non illustrare irrealistiche e diverse redistribuzioni di una torta che è sempre più piccola.
Ma le forze creative non si suscitano per legge, o con più o meno bizzarri incentivi (tipo i bonus settoriali). Né il politico può distribuire risorse che prima non siano state prodotte.
Dal non senso si esce solo con una nuova e meno forte idea di politica. Ma questo non è solo un problema italiano.
Con la forza degli eventi che accadranno, piuttosto che con una lungimiranza tecnocratica che non può esserci per principio e che non può essee propria nemmeno una classe dirigente vero che neppure essa è visibile all’orizzonte.
Provvidenzialismo? Fatalismo?
No, semplicemente la consapevolezza che il futuro non può essere determinato per via solamente (o principalmente) politica. E che la politica post-novecentesca (o post-moderna) dovrà riformularsi diversamente.
Per intanto, consoliamoci col fatto che gli incantesimi di questa campagna elettorale resteranno sicuramente tali. E che, a ben vedere, la nostra, più delle altre, è in linea generale un’epoca storica di transizione di cui non vediamo neppure i contorni del futuro. Pur dovendo logicamente supporre che i semi di esso sono già fra di noi.
Corrado Ocone