Sfogliamo i giornali, guardiamo la televisione, navighiamo sui social: è tutto un ricorrere della parola «emozione», tutto un invito a farci avvolgere, a dimenticare di pensare, a prendere la vita con «slancio», a commuoversi e ad eccitarsi.
Viviamo nella società dell’emozionalismo che, in neurologia, è un disturbo da curare ma che ormai ci contraddistingue tutti, nessuno escluso.
Ebbene, fermiamoci.
È vero che i neuroscienziati, come il grande Antonio Damasio, ci insegnano che pensiamo pure attraverso le emozioni; ma forse abbiamo troppo ritorto il legno all’estremo opposto rispetto alla ragione. Se non possiamo esistere senza emozioni, dobbiamo anche ritornare a capire come gestirle: e avremmo bisogno di recuperare un po’ di razionalità, parola ormai caduto in disuso.
Quali sono i danni inferti dalla società dell’emozionalismo?
Innumerevoli. Limitiamoci alla politica. Tutti lamentiamo come questa campagna elettorale sia totalmente priva di focus, presentando esattamente invertita la gerarchia dei problemi: si dibatte di questioni secondarie, mentre quelle nodali neppure sono sfiorate.
In pochi giorni siamo passati dagli inviti a mobilitarsi contro un fantasmagorico fascismo al cosiddetto scandalo rimborsi, per poi fronteggiare una nuova paura, quella delle «fake news» di Putin – ma ieri è ritornato in gran spolvero il fascismo.
Ci sono tante ragioni dietro questa confusione.
Ma una è certamente da cercare nel predominio dell’emozionalismo. E i politici sono ormai diventati, più che risolutori di problemi, amplificatori di emozioni, di quelle che emergono dal gorgo oscuro della «folla». Che la rete e i social nutrono ed alimentano, veicolo come sono di comunicazione emozionale, di passioni sgangherate e sghembe.
Le scienze sociali usano il concetto di «attore politico». Ma oggi questa non è più neppure una metafora, e politici sono proprio diventati teatranti: mai come in questa campagna stanno interpretando un copione. Sarebbe ipocrita lamentarsi troppo: i politici non recitano più di quanto non si faccia nella cosiddetta «società civile» e in fondo rispondono in modo più o meno efficace all’emozionalismo che domina.
La scienza politica statunitense aveva anni fa scoperto la figura dell’«elettore razionale». Che però oggi è ormai una specie in via di estinzione, come dimostrano quasi tutte le elezioni recenti, e non solo da noi. Dove alcune forze politiche sono votate dai cittadini per reazione, per protesta, anche per sberleffo, spesso andando contro i più evidenti propri interessi, persino materiali.
A prevalere è più che mai l’elettore emozionale.
Ecco spiegato il carattere quasi lisergico dei programmi delle forze politiche, tutti «alza debito», come ha scritto ieri questo giornale, perciò nessuno realizzabile. Poiché sanno che difficilmente potranno governare da soli, i capi partito usano le promesse per coprire quel vuoto emozionale richiesto dagli elettori, che altrimenti non riuscirebbero a soddisfare.
Servono ulteriori argomenti contro l’emozionalismo politico? Vediamoli.
1) La politica sana è, aristotelicamente, il «giusto mezzo». L’emozionalismo spinge invece sempre agli estremi.
2) L’emozionalismo politico riscalda sempre più il corpo sociale: che invece ha bisogno di essere raffreddato; anche rassicurato, se si vuole.
3) L’emozionalismo è sempre apocalittico: gioca sulla paura, addita la fine del mondo dietro l’angolo. Ma poiché la catastrofe per fortuna non si verifica (quasi) mai, chi profetizza sfracelli finisce per perdere di credibilità.
4) L’emozionalismo, che in teoria dovrebbe avvicinare i cittadini alla politica, finisce per allontanarli: da qui la fuga dalle urne prevista da tutti i sondaggi.
Non si può tornare indietro, e pretendere i politici razionali alla De Gasperi, Moro, Andreotti, Craxi, La Malfa (anche se poi tutti li rimpiangono). Possiamo però auspicare che la politica sia un po’ meno slabbrata e viscerale. In fondo il suo compito è solo quello di riparare ciò che la società danneggia: le emozioni, invece, è più sano andare a cercarle altrove.[spacer height=”20px”]
Marco Gervasoni, Il Messaggero 20 febbraio 2018