Un curriculum non è solo uno strumento di lavoro. È anche uno specchio di chi sei o, meglio ancora, di chi vorresti essere. Si presenta come un arido e indigesto elenco di incarichi e lavori, ma è soprattutto il romanzo autobiografico che confessa aspirazioni, vanità, progetti di vita, riconoscimenti di chi stila con meticolosa completezza ogni frammento della propria vita pubblica.
Nel curriculum del premier designato Giuseppe Conte ci saranno pure inesattezze, per così dire, o edulcorazioni, ampliamenti, super-dimensionamenti che rischiano, come pare acquisito, di non reggere a puntali e puntigliose inchieste di verifica. Ma sicuramente in quella sterminata successione che accumula per pagine e pagine ogni piega della vita professionale e accademica del professor Conte si rispecchia la smania di riconoscimento di un ceto dirigente che vuole farsi bello e internazionale, cosmopolita e plurilingue pur di accedere all’empireo sognato dell’establishment, avendo cura di strappare via ogni minima traccia della propria origine provinciale. Il curriculum di chi aspira a un ruolo da ottimato della Repubblica Internazionale dei supertitolati contempla degli schemi a cui attenersi con scrupolosa obbedienza. Anche per chi dovrebbe guidare un governo che della guerra all’establishment ha fatto un proprio vessillo.
Ma il dente duole sempre lì: farsi accettare, acquisire uno status, entrare nel grande club.
Il curriculum del professor Conte, a una lettura attenta delle sue pagine, sembra interamente dentro questo schema. Il curriculum come testimone di un’ascesa di status. Ecco la maniacale ossessione nell’elencare corsi di Banking Law, compiaciute appartenenze all’Association de la culture juridiquefrançaise, la galleria di incarichi presso qualche Board, meglio ancora Board of Trustes, di atenei sparsi nel mondo civilizzato, ma anche del Cardinal Tonini Charitable Trust con sede a Pittsburgh, Pennsylvania. Molte le «relazioni culturali» con università tipo quella di Dayton, Ohio, e poi il capitolo controverso di soggiorni di studio e perfezionamento, «per periodi non inferiori a un mese», a New York e in giro per il mondo accademico accreditato. Ci si perde nella miriade di partecipazioni all’European Contract Group e al Social Justice Group, nei seminari come intellectual partner nel progetto della World Bank, del Global Forum in Law, Justice and Development.
Senza contare le innumerevoli partecipazioni negli Editorial Board, conferenze alla John Cabot University e in chissà quante altre. E si possono forse trascurare con superficialità le tantissime partecipazioni, pagine e pagine, del professor Giuseppe Conte come relatore a convegni sulle più disparate articolazioni del sapere giuridico internazionale. Ci sono anche numerosi «è intervenuto», cioè anche un intervento a una tavola rotonda entra trionfalmente a far parte del profilo curriculare. Ci sono anche «presentatore del volume», e giù un elenco di volumi presentati, a cominciare da «Class Action. Prime valutazioni e procedure di applicazione».
Senza trascurare il fatto che «è stato invitato a parlare alla conferenza internazionale dal titolo Implications for Growth and Policy organizzato a Roma dal Progressive Policy Institute di Washington». Per finire con un sontuoso elenco di «principali pubblicazioni», che per il fatto di essere umilmente «principali» coprono soltanto un centinaio di titoli.
Tutto vero? Molto ritoccato, insomma abbellito, come sembra. Ma conta il desiderio spasmodico di accumulare qualunque più piccola tessera di un mosaico professionale e personale per dare l’impressione di essere tra i primi, di camminare a testa alta nella provincia da cui si è venuti, per scalare le vette della grande e luminosa élite cosmopolita.
Il film Smetto quando voglio racconta comicamente un paradosso: i giovani protagonisti, tutti straordinariamente colti e preparati, per farsi accettare da chi potrebbe assumerli ma solo con livelli retributivi umilianti, sradicano dai loro curriculum alcuni titoli di merito. Devono apparire peggiori e più incolti di quanto non siano e due ragazzi vengono licenziati presso un distributore di benzina perché sorpresi a usare proditoriamente una citazione in latino.
Pare che succeda spesso, nella realtà: il curriculum ritoccato al contrario, in senso peggiorativo, per non spaventare chi assume. Ma per chi invece usa il curriculum come biglietto di ingresso nel dorato mondo di chi si reputa possa far parte dell’establishment, l’esigenza di elencare tutti quei titoli, anche i più banali come la partecipazione a una tavola rotonda purché siano adoperate espressioni in inglese, diventa un imperativo tirannico.
Ecco la radice delle possibili gaffes in cui il grande architetto del curriculum può imbattersi. E non può nemmeno smettere quando vuole.
Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera 25 maggio 2018