La giornata di ieri sarà ricordata come quella della crisi istituzionale più grave della nostra Repubblica. Solo nel 1964 si era giunti a un tale scontro tra il Capo dello Stato, Antonio Segni, e la maggioranza di governo, guidata da Aldo Moro. Ma allora era il tempo del segreto e della discrezione: oggi siamo nell’epoca della democrazia elettronica. L’ora è gravissima perché ci troviamo di fronte a due eventi radicali: l’interruzione della “rivoluzione” del 4 marzo e il conflitto tra due legittimità, quella presidenziale, da un lato, e quella della maggioranza dall’altro. E poi, secondo evento, il sistema politico che rischia di spaccarsi verticalmente tra un fronte anti Ue e uno pro Ue: perché è questa, l’Europa, che non ha consentito di compiersi in forme istituzionali la rivoluzione del 4 marzo.
La legittimità di Mattarella: egli ha ribadito di aver dovuto essere assertivo di fronte alla nomina del Ministro dell’Economia, Paolo Savona, accusato dal presidente esplicitamente di voler l’uscita dell’Italia dell’euro. Una rivendicazione del Quirinale come garante dell’appartenenza dell’Italia non solo all’Europa ma anche alla moneta unica. Ma alla legittimità presidenziale, Di Maio e Salvini hanno contrapposto un’altra legittimità, quella delle urne e del Parlamento: della maggioranza relativa del corpo elettorale del 4 marzo.
Uno scontro che è passato anche dall’interpretazione dell’art. 92 della Costituzione, che definisce i poteri del presidente della Repubblica – e non favorito dalla vaghezza con la quale, in molte sue parti, la Costituzione è scritta. Però con il discorso di ieri Mattarella è entrato direttamente nel merito delle scelte politiche della maggioranza, per quanto a protezione della loro sostenibilità istituzionale e internazionale, fissando dei limiti che esse non potrebbero o dovrebbero travalicare. Un ruolo che, suo malgrado, porta il Quirinale in un’arena in cui viene messa in discussione la funzione di terzietà del Capo dello Stato che, se era un limite, era anche una forma di protezione.
Il risultato è di quelli che non ci saremmo mai augurati: una delle due forze politiche della ex maggioranza, M5S (più Fratelli d’Italia), evoca addirittura la messa in stato di accusa del presidente: un evento devastante, minacciato in passato alcune volte, ma avviato formalmente solo una volta: nel 1991, quando il Pds cercò di cacciare Cossiga e fortunatamente non si arrivò al voto. Una miccia da disinnescare: perché i conflitti tra legittimità sono quelli che, nella storia, hanno provocato la mutazione (e anche la degenerazione) delle rivoluzioni virtuali in incontrollabili scontri di piazza. Da sollevazioni senza ghigliottina a degenerazioni ben più concrete.
Bisognerà dunque stemperare il clima e condurre il Paese al voto che sembra ormai ineluttabile e imminente evitando ulteriori divaricazioni nel Paese.
La giornata di ieri spacca in due il paese anche sull’Europa. E conduce alle urne, sotto la guida dell’economista pro euro Carlo Cottarelli, eserciti lacerati e profondamente divisi. Salvini, se vorrà restare nel vecchio centro-destra, dovrà tornare da Berlusconi come il figliol prodigo, reduce da un insuccesso. Ancora più seria la posizione di Di Maio, la cui leadership nel movimento viene già messa in discussione dall’ala oltranzista e barricadera. A aggravare il tutto c’è una preoccupante novità: il presidente della Repubblica, diventerà uno dei temi della campagna elettorale per mano di coloro che ne contesteranno la legittimità delle scelte.
Nell’attuale e mai decollata legislatura, quasi il 60% del Parlamento è ostile all’inquilino del Quirinale, solo buona parte di Forza Italia e naturalmente il Pd hanno dichiarato a gran voce di volerlo sostenere in questo complicato momento. Il momento della verità arriverà presto in Parlamento davanti al governo Cottarelli: se il centrodestra nella sua vecchia versione dovesse naufragare, Lega e 5 stelle potrebbero essere destinate ad allearsi in campagna elettorale. In questo caso, che al momento pare probabile, ci troveremmo di fronte ad una campagna elettorale tra due blocchi, uno compiutamente anti Ue, 5 stelle, Lega e Fratelli d’Italia (con magari la bandiera di Savona premier già issata) e l’altro (Pd-Forza Italia) europeista. A quel punto, il tema dell’appartenenza dell’Italia nell’euro diventerà materia di contesa elettorale. Una sorta di referendum stile Brexit.
Chi si augurava lo scontro tra pro-Europa e anti-Europa, alla fine l’ha avuto. L’unico rischio è che da questa drammatica contrapposizione alla fine si ergano solo le macerie del Paese.
Marco Gervasoni, Il Messaggero 28 maggio 2018