Sono diversi gli elementi che sfuggono a qualsiasi logica, costituzionale e politica, nelle vicende che hanno portato domenica sera alla bocciatura del governo Conte e alla quasi contemporanea convocazione in Quirinale per un nuovo incarico di Carlo Cottarelli, che pure aveva pubblicamente giudicato in passato un errore avere aderito a suo tempo all’euro senza aver prima risanato i nostri conti.
In prima istanza bisogna dire, per onestà intellettuale, come ha scritto su queste colonne Paolo Flores d’Arcais, che, da un punto di vista meramente costituzionale, quella di Mattarella è stata quanto meno una forzatura. Ma la cosa più incomprensibile è che questa forzatura sembra essere stata compiuta senza un minimo calcolo delle conseguenze politiche che poteva avere.
A tutta prima, infatti, essa sembra non solo inopportuna ma anche controproducente sia per il raggiungimento dei fini politici “europeisti” che il presidente si propone, sia per la necessaria tenuta democratica del Paese.
Di fronte alla sfida lanciata alla vecchia classe dirigente da leghisti e Cinque Stelle, culminata in un inequivocabile risultato elettorale lo scorso 4 marzo, sarebbe stato necessario agire forse con più accortezza politica, o quanto meno esercitare con più discrezione la “moral suasion” senza contrapporre rigidità a rigidità.
Preso certo atto della incoerenza, e in molti aspetti velleità, del programma di governo presentato nel cosiddetto “contratto”, ma constata altresì e soprattutto la volontà non “eversiva” dei suoi promotori, era a mio avviso opportuno politicamente che questi ultimi fossero messi alla prova del governo. Questa prova avrebbe infatti o istituzionalizzato e reso meno acerbi i due gruppi, oppure avrebbe chiaramente mostrato agli italiani la loro inadeguatezza a governare.
In ogni caso, per quanto dannosa e irresponsabile possa essere considerata la Italexit, questa scelta non può essere sottratta al gioco politico o democratico, non vertendo su questioni costituzionali ma prettamente politiche. Non si vede perché, in linea di diritto o teoria, ciò che è permesso al popolo della più antica democrazia del mondo non possa essere permesso al nostro.
Tuttavia, a quel che emerge dal “contratto”, e come ribadito dallo stesso Paolo Savona, l’uscita dall’euro non era assolutamente in cantiere. È vero che Savona aveva più volte, individualmente e da studioso, parlato di un piano di riserva, o “piano B”, ma esso il paese lo avrebbe dovuto preparare, secondo lui, solo per tenersi pronto a una eventuale uscita indotta dai partner stranieri (un’ipotesi non di pura accademia).
Oppure come mera ipotesi da mettere sul tavolo per farci avere più peso nei negoziati (il che non significa essere “sovranisti” ma curare i nostri “interessi nazionali” come in questa fase del progetto europeo fanno tutti agli altri paesi, a cominciare da Francia e Germania).
La conseguenza politica di quanto accaduto il 27 maggio, delle opposte impuntature di Salvini e di Mattarella, è che quella che era una discussione politica sull’Europa e sull’euro rischia di trasformarsi ora, e forse si è già trasformata, in una vera battaglia, anzi una guerra, fra europeisti e non.
Una guerra che lascerà macerie e il cui esito non può dirsi certo scontato per gli “europeisti”, almeno stando ai sondaggi. Perché arrivare a tanto? Perché spostare sui principi una battaglia che poteva essere gestita con le armi della politica? Sono domande forse destinate a restare ancora per un po’ senza risposta, ma che non può non porsi chi crede che in politica esista una logica e una seppur specifica razionalità.
Giudicata invece tutta la faccenda in un’ottica metapolitica, o storica, si potrebbe invece fare anche cinicamente il discorso sulla positività degli “scandali”, quanto avvengono, secondo il dettato evangelico. Sia nel senso che, su alcune questioni, le forze in campo sono ora chiamate a chiarire fino in fondo davanti agli elettori le loro posizioni.
Sia nel senso che, per chi ha occhi per vedere e cervello per intendere, risultano finalmente evidenti tutti i limiti costituzionali-istituzionali di una struttura di potere e di amministrazione pensata in un diverso contesto storico. Una struttura che oggi non è più adatta a garantire né la stabilità né la rappresentatività dei governi, e nemmeno e soprattutto una corretta e chiara dialettica fra i poteri dello Stato.
Corrado Ocone, www.huffingtonpost.it 29 maggio 2018