Che il governo Conte nasca sghembo e senza un apparente baricentro, tenuto in vita da due soci di maggioranza in competizione fra di loro, è evidente. Ma, d’altronde, cosa altro ci si poteva aspettare dopo che il voto del 4 marzo aveva fotografato un Paese diviso e frammentato, la cui divisione e frammentazione è stata come esaltata da una scellerata legge elettorale?
Né, presumibilmente, le cose sarebbero sostanzialmente cambiate se fossimo ritornati subito alle urne. Che un governo sia comunque nato, è perciò da considerarsi quasi un miracolo. E che sia nato un “governo politico” è “di gran lunga la soluzione migliore”, come ha detto Carlo Cottarelli con una onestà intellettuale e un senso dello Stato che non sembra caratterizzare ancora in queste ore le opposte tifoserie.
In effetti, ai tavoli negoziali europei e internazionali l’Italia non poteva essere rappresentata da un governo sfiduciato in Parlamento da quasi tutte le forze politiche.
Ma che governo è quello che nasce? È veramente il “governo del cambiamento”? E in che senso?
Ovviamente, per sciogliere questi nodi occorrerà attendere che esso si metta all’opera: che, soprattutto, si verifichi se, nella prassi concreta, dalla eterogeneità possa nascere una qualche armonia o no. Da questo punto di vista, il pluralismo delle visioni presenti in esso potrebbe essere una virtù e non un vizio di origine.
Così come il mix di persone esperte e con esperienza internazionale (e che giustamente garantiscono anche il Capo dello Stato) e di esponenti di nuovi ceti politici che si affacciano all’orizzonte dando spesso l’impressione, e non solo l’impressione, di essere confusi e dilettanteschi.
Questi ultimi hanno però ora sicuramente la possibilità di mettersi alla prova e farsi le ossa, o di soccombere definitivamente e trapassare come un fulmine improvviso in un cielo sereno. I temi forti dell’azione di governo saranno senza dubbio quelli della campagna elettorale, quelli che stanno a cuore agli italiani e che le forze di opposizione, soprattutto il Pd (tutto concentrato su un europeismo astratto e su una bulimica pulsione dirittistica), hanno masochisticamente snobbato: l’attenzione ai vecchi e nuovi “deboli”, una presenza più assertiva sullo scenario internazionale (non solo europeo), la sicurezza interna, il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina (in verità su quest’ultimo punto Minniti aveva iniziato un buon lavoro che non possiamo non augurarci che continui).
Come le soluzioni saranno declinate non è dato sapere, ma la dialettica interna alla nuova compagine, ripeto, dà garanzie. Certo, il problema dell’Italia resta quello di sempre: manca una cultura politica liberale, fra i nuovi vincitori come fra i vecchi vinti.
E, di conseguenza, l’ideologia, per fortuna solamente parolaia, continua ad alimentare il dibattito pubblico, dall’una e dall’altra parte. Ma bisogna essere realisti e non pensare che il liberalismo possa essere costruito a tavolino, che esso possa informare come d’incanto lo spirito pubblico.
Il lavoro sarà di lunga durata e con un esito non scontato. Credo che, in questa eterna transizione italiana, si sia ora toccato un punto di massima: di pericolo e opportunità insieme. La crisi può aiutare un necessario rimescolamento della carte, può contribuire a far nascere una nuova e più sana dialettica politica.
Anche le forze di opposizione, se non penseranno a costruire improbabili “fronti”, o a gridare ancora una volta all’ “emergenza democratica”, potranno essere invogliate ora a concentrarsi sui temi concreti, costruendo una vera alternativa al fronte uscito vincitore dalle elezioni.
Le sfide che ci attendono sono tante, ma non è forse vero che proprio nei momenti di crisi noi italiani sappiamo reinventarci e avere uno scatto di orgoglio?
Corrado Ocone, “L’Huffington Post” 1 giugno 2018