A una prima lettura, il programma sulla Giustizia esposto dal Presidente Conte sembra mitigare le istanze estreme che caratterizzavano il cosiddetto contratto di governo.
Sulla legittima difesa, si parla solo di generico potenziamento; sulla prescrizione, di una sua restituzione alla funzione originaria; sulla certezza della pena, di un suo contemperamento con lo scopo riabilitativo. Insomma nulla di rivoluzionario: non la licenza di sparare sempre e comunque in casa propria, non il carcere per tutti. Non un eterno calvario per chi cada nella rete della legge penale.
Accanto a queste apparenti novità, le usuali aspirazioni predicate da tutti i governi precedenti: processi più rapidi, giustizia più snella, risarcimento per le vittime, lotta alla mafia e alla corruzione. Un programma che presenta una continuità di propositi e che, temiamo, produrrà altrettante delusioni, per alcune ragioni che provo a spiegare.
1) Processi celeri. La lentezza della nostra giustizia, soprattutto di quella penale, è determinata da un fattore molto semplice: la disparità, o meglio l’incompatibilità tra i mezzi disponibili e i fini perseguiti. I mezzi sono quelli noti: pochi magistrati, ancor meno collaboratori, e strutture antiquate. I fini sono quelli di perseguire tutti i reati, con un’azione penale che è obbligatoria. Quindi: o si aumentano i mezzi, ma questo è impossibile perché non ci sono risorse, e comunque l’arruolamento di giudici e ausiliari capaci richiede alcuni anni di formazione. Oppure si diminuiscono i reati con una radicale depenalizzazione: ma il governo pare pensarla in modo opposto, o così almeno si legge nel contratto. O infine si rende discrezionale l’azione penale, ma qui occorrerebbe cam biare la Costituzione. Se il Presidente e il ministro della Giustizia hanno altri suggerimenti, che non siano la solita litania sulla gestione manageriale degli uffici, mi piacerebbe conoscerli.
2) La certezza della pena. La pena, per esser davvero certa ed equa, dev’esser irrogata in modo corretto e con un processo rapido perché una sanzione inflitta a distanza di anni è sempre ingiusta: e questo ci riporterebbe al problema precedente. In realtà c’è dell’altro. Pena certa non significa sempre e comunque la galera: significa una sanzione applicata in modo concreto. Ad esempio, se oggi un vandalo im bratta un muro, rischia qualche mese di carcere per danneggiamento. Nella pratica, se vien preso, il giudice gli infligge trenta giorni con la condizionale: cioè viene liberato, e buonanotte a tutti. La pena certa significherebbe che il vandalo viene condannato a un mese di lavaggio degli edifici sporchi, lavoro da cominciare il giorno dopo la sentenza. Con l’avviso che se il condannato non ottempera l’obbligo, in galera ci finisce davvero e senza sconti. Anche qui, ci piacerebbe sapere.
3) La prescrizione. La sua funzione originaria non è più solo quella del codice mussoliniano di estinguere un reato che lo Stato non ha più interesse a punire, ma anche quella, prevista dalla Costituzione, di garantire all’imputato un processo di durata ragionevole. Il termine di otto anni (o dieci, o dodici) può anche essere troppo breve per estinguere l’interesse a punire un reato grave; ma è già troppo lungo per un disgraziato sotto inchiesta, che magari alla fine venga riconosciuto innocente. Il rimedio è noto. Basterebbe far decorrere i termini non dal momento della commissione del reato, ma da quello in cui il cittadino finisce sulla graticola giudiziaria. Aspettiamo.
4) L’agente provocatore. Ed ora il quesito finale. Nella (sacrosanta) lotta alla corruzione si vuole introdurre la figura dell’agente provocatore: un ruolo ambiguo e sciagurato, che da noi avrebbe conseguenze funeste. La risposta che si dà è che negli Stati Uniti funziona. Rispondo: credo bene! Funziona perché gli Usa hanno un sistema giudiziario non solo diverso, ma opposto al nostro. I giudici sono nominati dai Governatori, o dal Presidente, e com unque non giudicano nulla, perché il verdetto lo e mette la giuria popolare, composta da cittadini sorteggiati e ricusabili. Nel senso che l’imputato può – entro un certo numero farli estromettere, senza nemmeno spiegare il perché. Inoltre l’azione penale è discrezionale e ritrattabile, cioè può esser ritirata dall’accusatore per ragioni sue proprie.
Ma l’aspetto più interessante è un altro: che il Pubblico Ministero, cioè il District Attorney o Public Prosecutor, è eletto dal popolo, e ha una responsabilità politica. Se fa un malo uso dell’agente provocatore, non solo viene cacciato via, ma può anche esser chiamato risarcire il danno. Da noi, come si sa, il Pm è irresponsabile, e spesso quando sbaglia un’indagine viene promosso.
Orbene, un sistema giudiziario si deve assumere nella sua coerente sistematicità, altrimenti si sfascia in mano, come è accaduto da noi con il processo alla Perry Mason, quando si è voluto prendere una Ferrari con il motore della cinquecento, senza benzina per farla correre e senza piloti che la sapessero guidare.
È dunque disposto, il Governo, a proporre al Parlamento il sistema americano, e soprattutto a rendere elettivo, il Pubblico Ministero? Il Ministro Salvini probabilmente lo è. Ci piacerebbe sentire gli altri.
Carlo Nordio, Il Messaggero 6 giugno 2018