In occasione dei suoi 175 anni di esistenza, il più importante settimanale del mondo, “The Economist” ha pubblicato un Manifesto per un nuovo liberalismo. La diagnosi svolta dal settimanale è nota: pochi anni dopo la caduta del muro di Berlino, all’interno dell’Occidente si è verificata una preoccupante erosione del consenso verso i valori liberal-democratici e quelle che il settimanale chiama le élite liberali. La crisi finanziaria del 2008 e subito dopo quella dell’immigrazione in Europa hanno fatto da detonatore ad un malcontento che comunque covava già sotto la cenere. I motivi erano diversi da Paese a Paese: dalla crescente ineguaglianza simboleggiata negli Stati Uniti dall’esplosione dei costi per mandare i propri figli all’università, all’emergere di un atteggiamento culturale che privilegia all’interno della società l’appartenenza ad un genere, razza, religione, orientamento sessuale, per finire con l’inadeguatezza e i costi crescenti dei sistemi di welfare disegnati dai governanti occidentali nell’immediato dopoguerra.
Le élite liberali, secondo il giornale britannico, prive di un nemico che ne mettesse in pericolo l’esistenza (come fascismo, nazismo e comunismo) o di una voglia di riscatto dopo severi traumi (la grande depressione o le guerre mondiali), sono diventate autocompiacenti, si sono adagiate sul sistema che le ha fatte prosperare e hanno perso il radicalismo riformatore tipico di quei liberali che, ad esempio, fondarono l’«Economist» nel 1843. Da qui la proposta del settimanale di un nuovo Manifesto che prende forma di un lungo saggio di cui è inutile fare la parafrasi perché disponibile in edicola.
Ciò che preme affrontare qui e che dovrebbe essere oggetto di dibattito serrato soprattutto nel nostro Paese, sono tre importanti aspetti.
1. In primis, non si confonda il messaggero con il messaggio. Se si pensa che la classe dirigente abbia fallito a causa del liberalismo si rende inevitabile cambiare entrambe. Invece in Italia sono le élite ad aver deluso proprio per non essere state abbastanza liberali ma aver bloccato la mobilità sociale e la società delle opportunità con regole, tasse, dientelismo, asservimento al potere economico ed invadenza del potere politico. L’ideologia della correttezza politica (e i suoi corollari in tema di immigrazione) ha poi aiutato una reazione che oggi chiamiamo sovranista la quale ha adonato ricette uguali e contrarie.
2. In secondo luogo, il radicalismo necessario per rivitalizzare il liberalismo deve partire dal rendere evidente i vizi del tribalismo. Quando con atteggiamento vittimista ce la si prende irragionevolmente coi migranti o coi tedeschi, non ci si deve stupire che altri ci considerino parassiti gaudenti o razzisti latenti. Il tribalismo non aiuta, ma rende vittima sul serio. Questo vale anche quando Serena Williams, dopo aver imbrogliato ed insultato l’arbitro, lo apostrofa come «maschilista» se la punisce, contribuendo ad rafforzare pregiudizi sulle troppa emotività e sull’ingiustizia della discriminazione positiva da cui sarebbero favorite le donne. Il vittimismo tribale colpisce l’intera tribù.
3. Terzo, la libertà di espressione è il primo fondamento di una società non solo liberale, ma decente ed umana. Essa deve essere difesa sia dalle aggressioni degli sciami organizzati nei social (diffamazione, minacce e insulti vanno puniti e l’anonimato non è una garanzia di libertà quando viola i diritti altrui), sia dalle ancor più pericolose intimidazioni che chi governa rivolge ai media. È solo in un civile mercato delle idee che si riesce a prosperare ed è questa la battaglia prioritaria da vincere.
Impegniamoci dunque su punti concreti, mentre le palingenesi lasciamole al Manifesto più famoso della storia, pubblicato nel 1848 da due intellettuali tedeschi: si rivelò una catastrofe.
Alessandro De Nicola, 18 settembre 2018