Il quadro sulla percentuale dei laureati italiani certificato nei recenti dati diffusi dall’Ocse nel Rapporto Education at a glance 2018 consegna ancora una volta una Italia sempre più in difficoltà non solo con i maggiori competitors internazionali ma, soprattutto – e in modo preoccupante – con i paesi ancora in via di sviluppo. Solo il 4% degli italiani possiede una laurea a fronte del 17% vantato dai paesi Ocse e nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni il livello di laureati si ferma al 27% (ma dieci anni fa era addirittura al 19%) contro il 44% degli altri 36 paesi monitorati: praticamente il penultimo posto prima del Messico.
Basta anche uno sguardo superficiale ai numeri per notare come, a differenza di altri settori come quello industriale, certi dati comprendano, sorprendentemente, sia le aree più sviluppate del nord che quelle più arretrate del sud: mai forse si era visto il Trentino Alto Adige condividere con la Basilicata una percentuale inferiore del 10% in termini di tasso di scolarizzazione rispetto alla media nazionale.
Che l’Italia fosse il paese delle disuguaglianze sociali più stratificate, nonostante l’alto livello di globalizzazione raggiunto e un tasso di scolarizzazione tutto sommato soddisfacente, era cosa nota da tempo. Per questo, nonostante i disparati interventi normativi susseguitisi nel corso di vari anni e di vari governi, poco meno del 20% dei giovani provenienti da nuclei familiari meno istruiti ha superato il livello scolastico raggiunto dai genitori. E non va meglio ai giovani laureati alla ricerca di una occupazione: solo l’81% di chi è in possesso della laurea riesce a trovare lavoro, un’altra fotografia della netta cesura tra istruzione e mondo del lavoro che fa dell’Italia un caso unico all’interno del quadro delle grandi potenze industrializzate. Insomma, tra qualche luce, come il 71% dei giovani figli di non laureati che prosegue il ciclo di studi dopo la maturità contro il solo 47% della media Ocse, e molte ombre, come il solo 25% che decide di aggiornare i propri studi dopo la laurea, il settore dell’istruzione può essere considerato a tutti gli effetti una delle nostre maggiori emergenze nazionali.
Un disastro, questo, che ha radici lontane: l’impennata dei giovani che decide di lasciare l’Italia e studiare all’estero (più 36% in soli tre anni) è forse la declinazione più evidente del fallimento di un sistema – scolastico ed universitario – che ha conseguenze dirette, e fin troppo sottovalutate, in termini di produzione interna.[spacer height=”20px”]
Senza tralasciare che l’Italia, tra i tanti ultimi posti che occupa nelle varie classifiche, è fanalino di coda anche nel livello d’età degli insegnati (il 58% ha oltre 50 anni) e che la spesa per studente nelle scuole, da quella primaria agli istituti post-secondari non terziari, è ancora diminuita rispetto agli precedenti. Se la spesa pubblica nell’istruzione – come ha rilevato l’Istat – nel 2015 ha inciso sul Pil per il solo 4,0%, il valore più basso di quello medio europeo che è del 4,9%, non è certo un caso come il nostro sistema d’istruzione non sia per nulla attrattivo nei confronti degli studenti stranieri che ammontano al 5% rispetto al 6% dell’area Ocse e al 9% nei Paesi della media UE23. E se in Italia non investono gli studenti stranieri non si può certo pretendere che a farlo siano gli imprenditori.
Continuando a concepire, come si fa in Italia, scuola e impresa due mondi paralleli e non comunicanti, il magro bottino rappresentato dai numeri che disegnano il nostro livello d’istruzione è destinato a ripercuotersi fisiologicamente anche e soprattutto nel settore produttivo. Eppure qualche, pur timidissimo, segnale di ravvedimento c’è. E riguarda la ricerca e lo sviluppo, l’unico mondo di mezzo tra istruzione universitaria e lavoro che mostra segnali incoraggianti, anche se riguardano un aspetto ancora troppo settoriale.
Secondo gli ultimi dati dell’Istat la spesa di imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni non profit e università è salita a 23,2 miliardi di euro, segnando un +4,6% rispetto al 2015 e registrando l’1,38% del Pil nel 2016 rispetto all’1,34% del 2015 mentre per il 2017 si stima una crescita ulteriore sino all’1,8% che, se non basterà a risollevare la china rispetto alle quattro volte in più che spende la Germania, dà certamente conto di una ritrovata sensibilità sul tema. Sempre che l’istruzione italiana sappia consegnarci qualcuno in grado di far buon uso di questo tesoretto, ancora troppo piccolo ma comunque invitante per chi, come noi, è costretto a guardarsi dalla concorrenza della Bulgaria. Una lotta tra poveri che non fa certo onore al nostro sempre meno istruito Paese.
Simone Santucci, 18 settembre 2018