Per il 27 ottobre un comitato di cittadini romani ha organizzino una manifestazione sotto le finestre del Campidoglio al fine di protestare contro il degrado di Roma. In effetti lo stato di abbandono in cui si trova l’Urbe è a dir poco deplorevole, però se i suoi abitanti vogliono veramente cominciare a cambiare le cose devono tenere a mente un’altra data, vale a dire l’11 novembre. In quella domenica, infatti, si celebrerà il referendum consultivo promosso dai Radicali (che perora gode di pochissima visibilità grazie ad un silenzioso ostruzionismo da parte della giunta Raggi) per la liberalizzazione dei servizi di trasporto pubblico locale, oggi quasi interamente gestito dall’Atac, l’azienda dei trasporti capitolina nota per scandali, disservizi e più recentemente per i suoi autobus flambé.
I quesiti referendari sono due.
1. Il primo chiede se i servizi di trasporto pubblico locale debbano essere affidati attraverso gare pubbliche anche ad una pluralità di gestori, garantendo la concorrenza e salvaguardando i lavoratori nella fase di ristrutturazione.
2. Il secondo invece domanda se Roma Capitale non debba favorire e promuovere l’esercizio di trasporti collettivi non di linea in imprese operanti in concorrenza (leggasi taxi ed Uber).
D’altronde, nonostante proclami di miglioramenti e modernizzazione, la situazione di Atac è insostenibile. Vi lavorano quasi 12.000 persone, il tasso di assenteismo è molto alto, il costo per vettura chilometro (il modo in cui si misura la produttività di queste aziende) è doppio rispetto alle migliori pratiche europee, la flotta dei mezzi è invecchiata (l’età media dei bus è di 11.6 anni), spesso in riparazione e a volte, appunto, si infiamma (29 volte da inizio anno a giugno). In nove anni la società ha ricevuto 5,7 miliardi di sussidi e patito perdite per 1,5 miliardi di euro: un record intergalattico.
Il bilancio semestrale gennaio-giugno 2018, mostra per la prima volta un risultato netto positivo di 5,2 milioni nonché un aumento dei ricavi del 2,3%. Ma onestamente sembra proprio un imbellettamento ante referendum. Infatti, i debiti, che ammontano a 1,35 miliardi di euro, grazie alla domanda di concordato (approvata a luglio dal tribunale di Roma) son congelati e quindi gli enormi interessi non decorrono. Nella proposta di concordato, poi, chi rinuncia più di tutti è proprio il Campidoglio, azionista e creditore che quindi porterà a casa altre perdite per le casse pubbliche. Inoltre, rispetto al contratto di servizio con il Comune Atac ha tagliato le corse di tram e autobus del 15% (8 milioni di km in meno), e questo non è un gran risultato: le centinaia di milioni che ottiene da Roma Capitale servirebbero per tutte le linee, non solo quelle che fanno comodo alla dirigenza.
Ora, è vero che la sub-concessionaria che gestisce il 20% del trasporto locale dell’Urbe, Roma Tpl, non è un mostro di efficienza, ma nonostante il Comune non le paghi i crediti, la sua produttività è comunque migliore di quella di Atac.
In poche parole: Atac è in una situazione fallimentare dal punto di vista economico e la qualità del servizio è pessima non solo nella percezione dei romani ma anche secondo tutti i parametri oggettivi del settore. Il referendum non chiede la privatizzazione (utilizzata come spauracchio, anche se non ci sarebbe niente di male), ma solo più concorrenza, gare in cui si valuti l’offerta migliore, le concessioni abbiano durata non eterna e si interrompa per quanto possibile anche il circolo vizioso peri il quale il controllore (il Comune) è anche l’unico azionista del controllato.
È una scelta allo stesso tempo facile ed impegnativa: è bene che i cittadini romani ne sappiano l’importanza.
Alessandro De Nicola, La Stampa 20 ottobre 2018