Stando ai sondaggi e a quanto dicono la maggior parte degli opinionisti, le elezioni di midterms di martedì prossimo negli Stati Uniti dovrebbero confermare al Senato la maggioranza repubblicana mentre saranno decise alla Camera in un testa a testa all’ultimo seggio con i democratici. Se alla fine dovessero essere questi ultimi a spuntarla, l’America si sarebbe mossa lungo una direttrice abbastanza tradizionale che ha teso spesso nella storia, con le elezioni di metà mandato, a controbilanciare il potere della Casa Bianca con il controllo di una parte del Congresso da parte dell’opposizone.
Ciò è avvenuto, ovviamente, per la spontanea decisione degli elettori, ma è come se essi non avessero fatto altro che seguire una forza superiore che li trascendeva e portava a sancire quel sistema di pesi e controppesi che i Padri avevano messo alla base del buon funzionamento della democrazia americana. Ne risultava che i protagonisti del gioco politico, pur combattendo la loro battaglia con le più consumate arti del potere e fino all’ultimo colpo, finivano poi quasi per accettare il responso delle urne con la consapevolezza e la “tranquilità”di chi, più o meno consciamente, sapeva di muoversi su un sentiero ben tracciato.
Oggi quel clima che faceva unica l’America non c’è più e anche la battaglia di martedì prossimo è caricata di un peso e un valore che tradizionalmente non ha mai avuto. Non credo che ciò dipenda dall’atipicità della figura e delle idee del presidente in carica, come vorrebbe la retorica comune. O, meglio, quella anormalità si inscrive, sempre a mio parere, in un processo di più lunga data ed è lo specchio di un paese il cui elettorato tende a polarizzarsi e dividersi su posizioni sempre più estreme.
Per quanto queste posizioni vengano a far parte di una “guerra civile” simbolica, virtuale, e reale nella precisa misura in cui i simboli hanno un valore performativo e il virtuale tende sempre più a sovrapporsi oggi al concreto. Una lotta politica per l’egemonia sull’immaginario che, in verità, dagli Stati Uniti si è rapidamente diffusa un po’ ovunque e che in questo momento sembra essere la cifra che accomuna personaggi trionfanti e eventi politici un po’ dappertutto nel mondo. Trump è lo specchio fedele della situazione in atto e che lo ha portato nel suo paese a interpretare prima e meglio di altri, cioè in modo più coerente e radicale, lo “spirito dei tempi”.
Il quale non tollera posizioni mediane, ma tende a premiare chi esagera, soprattutto comunicativamente, in un senso e nell’altro, chi divide e non chi unisce. Senza dimenticare che, nello specifico americano, Trump è anche il figlio dell’opposizione e reazione popolare al predominio, nelle élites colte che dominano la comunicazione pubblica, di un’ideologia politicamente corretta la quale proprio ha raggiunto spesso livelli di irrealtà e anche di intolleranza inimmaginabili. Questo predominio dell’immaginario sul reale che leggiamo oggi nella politica americana (e non solo) non deve farci però credere ingenuamente che gli aspetti materiali e reali non giocano più un peso.
Ma è come se essi avessero necessità sempre di trasfigurarsi in un elemento ideale che li trasvaluti. Senza contare, come si diceva, che l’ideale stesso, cambiando il nostro modo di vedere le cose, agisce sulle cose stesse. Dal punto di vista della realtà concreta, Trump si presenta agli elettori con le carte più che in regola, con risultati economici a dir poco eccellenti e sorprendenti. In altri tempi, ciò da solo sarebbe bastato a farlo trionfare. Ma il Novecento è finito. Oggi non si vota più solo con la pancia ma anche e soprattutto con la testa. Che la testa sia poi rivolta ai miti della cultura popolare, da una parte, o a quelli della sedicente cutura politicamente corretta dall’altra, è un altro discorso. Che pure andrebbe affrontato e a livello di analisi non sottovalutato.
Corrado Ocone, formiche.net 4 novembre 2018