Alla fine della settimana della Memoria, sarà ben ricordare l’inizio delle tribolazioni del popolo ebraico: quella Diaspora che ne costituì la definitiva privazione della Patria e di cui, ahinoi, reca la colpa l’Impero Romano. Perché gli ebrei avevano già subito deportazioni e massacri: con la caduta della Samaria, da parte degli Assiri, e quindi della Giudea da parte di Nebukadnezzar. Ma per grazia di Dio, o di Ciro il grande, erano ritornati a casa loro: delusi e decimati sì, ma pronti alla ricostruzione. Il colpo fatale fu invece inferto da Tito, il “clemente”, con l’assedio e la distruzione di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo. Roma governava, o comunque dominava la Palestina da quando Pompeo aveva detronizzato la dinastia asmonea. Erode il Grande aveva abilmente ottenuto una certa autonomia, fino a ricostruire il Tempio precariamente rifatto da Zorobabele dopo la distruzione di quello Salomone. Quando Erode, «dopo aver rubato il trono come una volpe e averlo tenuto come una tigre, morì come un cane» il popolo cominciò a mugugnare contro la dominazione romana. Gli estremisti zeloti predicavano la rivolta; i sicari, armati di coltelli, ammazzavano indifferentemente soldati e collaborazionisti suscitando rappresaglie feroci che alimentavano l’odio.
APOSTOLI
Uno degli apostoli di Gesù, Simone Cananeo, era uno zelota. Samuel G.F. Brandon sostiene che addirittura il Maestro avesse simpatie rivoluzionarie, e sia stato crocifisso proprio per questo. Per i credenti, ma anche per i laici, questa tesi non regge. Resta comunque il fatto che in quel periodo vi era una fervente attesa di un avvento messianico, sia religioso che politico. Gli ebrei ne avevano ben motivo, perché i governatori erano crudeli e rapaci: il peggio di tutti, Felice, governò – ci dice Tacito – «con l’autorità di un re e l’anima di uno schiavo». Esasperati, i giudei si ribellarono, e presto la rivolta divenne rivoluzione. Noi ne conosciamo i dettagli attraverso la minuziosa ricostruzione di Giuseppe Flavio, un dignitario ebreo catturato dai romani, salvatosi per aver predetto a Vespasiano la sua prossima investitura imperiale. Giuseppe vuol dimostrare che si trattò di una guerra intestina tra l’aristocratica classe sacerdotale, accomodante verso Roma, e gli estremisti che desideravano cacciare l’invasore. In effetti i primi disordini scoppiarono a Gerusalemme tra queste due fazioni che si massacrarono con coscienziosa imparzialità, ma Giuseppe, preoccupato di accattivarsi la benevolenza dei suoi nuovi protettori, non é del tutto credibile. I disordini interni furono in realtà l’inizio della guerra per sottrarsi al crudele, e spesso ottu-o, dominio romano.
LA RIVOLTA
Sulle prime la rivolta parve avere successo. Gli ebrei circondarono la fortezza di Masada, allora tenuta da una guarnigione imperiale che si arrese pur di aver salva la vita. Gli zeloti non tennero fede ai patti e la sterminarono. Roma ne aveva abbastanza: inviò il suo miglior condottiero, Vespasiano, per domare l’insurrezione. Poco dopo il Generale fu nominato Imperatore, e lasciò il compito al figlio Tito. Tito circondò Gerusalemme con un muro, e invitò più volte gli assediati alla resa: questi risposero combattendo, e talvolta simulando trattative poi non mantenute. Dopo qualche assalto sanguinoso, Tito lasciò fare alla fame. Senza rifornimenti, senza cibo e senza speranza, i gerosolimitani mangiarono cani, gatti, topi e persino escrementi. Alla fine disseppellirono i morti e divorarono i cadaveri: una madre arrostì il suo lattante e ne mangiò la metà. Quelli che proposero la resa furono scaraventati giù dalle mura, e lasciati imputridire. Tito, nauseato da tanta brutalità, chiamò a testimonianza gli dei che non era colpa sua. Tuttavia i suoi soldati, accortisi che alcuni disperati scappavano dopo aver ingoiato i gioielli per sottrarli alle perquisizioni, cominciarono a sventrare i prigionieri. Alla fine, dopo ripetuti assalti, le disciplinate ed esperte legioni fecero breccia, ed entrarono a Gerusalemme. Esasperati dalla durata dell’assedio, dalla gravità delle perdite e dalle doppiezze degli assediati, i Romani si abbandonarono al saccheggio e alle crudeltà. Giuseppe Flavio usa i più astuti artifizi retorici per mitigare le loro nefandezze, e insiste in modo sospetto sulla riluttanza di Tito a ogni forma di vendetta e sui suoi tentativi di frenare il furore dei soldati. Ma se il potente generale, ora figlio dell’Imperatore, avesse promulgato l’ordine vincolante di evitare brutalità, sarebbe stato certamente ubbidito. In realtà Tito fece quello che avevano tutti i governatori precedenti: usò in modo spietato la forza del vincitore.
LE TORRI
La città fu rasa al suolo: furono salvate alcune torri, ma il resto, a cominciare dal Tempio, fu distrutto. Il bottino fu immenso: i superstiti più validi furono spediti a combattere nei circhi o a farsi divorare dalle belve. Donne e bambini furono deportati e venduti come schiavi, con grave disappunto dei commercianti che videro diminuire il prezzo della mercanzia. Tito torno a Roma in trionfo, e dopo qualche anno succedette al padre. I Cristiani di Gerusalemme – avvertiti dal Padreterno, secondo Eusebio di Cesarea, o dalle spie secondo altre fonti – si erano già allontanati dalla città assediata e videro nel massacro e nel saccheggio la giusta punizione per i colpevoli della morte di Cristo, alimentando così la leggenda del “deicidio”. Una favola sciagurata, perché Gesù era stato giustiziato dai Romani secondo la legge romana e con una pena romana; ma una favola che ebbe effetti funesti per il popolo ebraico nei secoli a venire.
IL BILANCIO
Il bilancio finale fu spaventoso. Un milione e centomila morti secondo Giuseppe Flavio, la metà secondo Tacito. Un numero impressionante, tenuto conto della popolazione di allora. Un Olocausto, paragonabile a quello che duemila anno dopo sarebbe stato inflitto da Hitler con una pianificazione più accurata e un’esecuzione industriale. Eppure anche allora questo popolo indomito seppe risollevarsi. Con pazienza e fede mantenne alti i suoi ideali e intatta la sua identità culturale e religiosa. Sopravvivendo a persecuzioni, calunnie, e discriminazioni, raggiunse le vette della filosofia con Maimonide e Spinoza, della letteratura con Heine fino a Philip Roth, della musica con Mendelssohn e Mahler fino a Leonard Bernstein, e della scienza con centinaia di geni, fino a Einstein, il più grande tutti. La perenne incertezza che ne rese così precaria la stabilità e la sopravvivenza fu anche lo stimolo per la loro inventiva, l’ingegno e la fantasia. Da sempre, nove tra i primi dieci violinisti del mondo sono ebrei. A chi gli chiese il perché di tale caratteristica, uno di loro rispose con la tipica malinconica ironia: «Provate voi a scappare da un Pogrom con un pianoforte!».