Un ragazzo crea un gruppo, su una delle piattaforme per lo scambio di messaggi. Una chat. Lo apre ai compagni di scuola e a qualche amico, con l’invito a scrivere senza far troppa attenzione al linguaggio. Parla come mangi. Arrivano in diversi, alcuni ragazzini. In breve si trasforma in una immonda cloaca, con deliri razzisti, antisemiti e inviti allo stupro dei bambini. Anche neonati.
Restano ragazzi e ragazzini, ma ciò non diminuisce la mostruosità. Dove erano i genitori? Ci si è chiesti. Dove siamo tutti noi? Il linguaggio d’uso comune indulge sempre più al turpiloquio. Il linguaggio pubblico, anche su quei temi, non si risparmia doppi sensi e allusioni. E se qualcuno condisce in quel modo le proprie tesi altri si trincerano nella condanna per non esporre la povertà delle loro antitesi. I buoni esempi, insomma, non abbondano. Anzi, sono indicati come dimostrazione d’esangue arrendevolezza.
Il fatto è che quei ragazzi hanno il diritto ad essere puniti. Il diritto. Perché crescere significa anche fare i conti con l’autorità, che si spera sia autorevole. La cosa giusta l’ha fatta una madre, denunciandoli. Brava. Il genitore ha il dovere di segnalare il confine fra l’adolescenziale contrapposizione e l’inaccettabile porcheria. Chi lo supera ha il diritto d’essere ripreso e redarguito. Troppo spesso gli adulti vengono meno a quel dovere, altrettanto spesso danneggiando e certo non favorendo i ragazzi.
Resta il quesito: da dove viene quella robaccia? Non da Marte, ma da noi. Non è di tutti e non viene da tutti, certo, ma lasciar correre e non reagire è già compartecipare. Supporre che un dire sia più forte se più volgare è già essere corresponsabili. Sarà un caso, ma non è privo di significato che a reagire sia stata una madre. I padri sbagliano quando fan troppo gli amici.