Dalla vittoria di Trump nelle primarie repubblicane al Brexit, il «cigno nero», l’evento traumatico che nessuno credeva davvero possibile, si sta trasformando nella nostra quotidiana normalità democratica. Chi ha cercato di spiegare perché ciò stia accadendo si è concentrato per lo più sul bisogno insoddisfatto di protezione: di sicurezza economica per classi medie in declino; di incolumità fisica per cittadini atterriti da terroristi e migranti. È una spiegazione fondata, ma a mio avviso insufficiente. Migrazioni, terrorismo e difficoltà economiche sono le sfide esterne che le democrazie paiono incapaci di affrontare. Le ragioni di questa loro incapacità, però, devono essere cercate al loro interno. Ossia, per chiamare le cose col loro nome, in una crisi sempre più evidente della civiltà liberaldemocratica. Una crisi che non nasce oggi, e che negli ultimi decenni hanno denunciato in tanti. Ma che oggi sembra aver raggiunto il suo culmine.
La natura dissonante e divergente del dibattito pubblico è un primo aspetto di questa crisi. Un secolo e mezzo fa, John Stuart Mill scriveva che «la libertà non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali». Con quel «migliorare» Mill intendeva due cose, mi sembra: che discutendo gli uomini si sarebbero avvicinati sia gli uni agli altri (pur restando differenti) sia alla verità (che pure rimaneva irraggiungibile). Nella formulazione del filosofo inglese, poi, la capacità di migliorare era irreversibile: una volta che fosse stata raggiunta, non la si sarebbe più smarrita.
Ora, siamo davvero sicuri di non averla invece perduta, quella capacità? In relazione sia all’elezione di Trump, sia al Brexit, è stata usata nel mondo anglosassone l’espressione «post-truth politics»: politica post-verità. Un gioco politico in cui le parti, quale più quale meno, mentono tutte; anche i dati più «duri» vengono contestati; gli esperti non sanno più fornire all’opinione pubblica alcuna certezza. E il progresso lineare verso la conoscenza e la convergenza, sognato da Mill, diventa un vano e frustrante girotondo in una babele di sofismi.
Un secondo aspetto della crisi della liberaldemocrazia va cercato nella fragilità dei corpi intermedi: le organizzazioni politiche, economiche, culturali, religiose. Una fragilità che deriva dalle trasformazioni storiche degli ultimi cinquant’anni, ma alla quale hanno pure contribuito attivamente le forze politiche sia di destra sia di sinistra. Le forze di destra – spesso di destra liberale – hanno indebolito i corpi intermedi perché si sono affidate al mercato. Proprio mentre denunciavano le forze di sinistra perché li indebolivano con l’insistere sui diritti individuali. Le forze di sinistra – spesso di sinistra liberale – hanno contribuito a disarticolare i corpi intermedi con l’enfasi sui diritti individuali. E al contempo attaccavano la destra perché li corrodeva attraverso il mercato.
Diritti individuali e mercato sono indispensabili a una democrazia, certo. Ma non le sono sufficienti. Nella tradizione liberale è sempre stata ben presente la consapevolezza che una società non può reggersi soltanto su pilastri economici e giuridici, ma ha bisogno di robuste fondamenta politiche. Ossia di ragioni che la tengano insieme – memorie, identità, senso civico, valori condivisi –, e di articolazioni interne che nutrano quelle ragioni. Si capisce allora perché mai la democrazia liberale più antica e solida del continente abbia votato contro un’Europa che è tanto attiva sul terreno economico e giuridico quanto inconsistente su quello politico.
In una democrazia liberale priva di verità e corpi intermedi, le élite non possono trovare legittimità. Non gliela può dare la competenza tecnica, che si disintegra nella cacofonia del dibattito pubblico. Non gliela può dare la leadership sociale, perché non ci sono più luoghi nei quali esercitarla. Ma se agli occhi del cittadino qualunque le élite non hanno alcuna utilità, i privilegi dei quali esse godono diventano insopportabili – ce lo ha insegnato Tocqueville. Come meravigliarsi, allora, se il voto diventa soprattutto un modo per esprimere quell’esasperazione? Eppure, al contempo, quanto a lungo può sopravvivere una liberaldemocrazia in cui le élite – tutte le élite – sono così delegittimate?
Possiamo naturalmente sperare che questa crisi sia congiunturale, e che prima o poi venga riassorbita. Che si riesca a rimettere un po’ d’ordine nel dibattito pubblico e a ricostruire dei corpi intermedi. O perfino che si trovi un modo per vivere senza classi dirigenti – è l’utopia del Movimento 5 stelle, un altro «cigno nero» fattosi normalità. Perché queste speranze abbiano un qualche fondamento, però, è necessario che sia le élite sia gli elettori riconoscano la crisi per quel che è. Si rendano conto dei pericoli che porta con sé. E prendano a comportarsi in maniera più responsabile di quel che hanno fatto negli ultimi anni.