L’insofferenza tutta italiana nel restare a casa è la testimonianza di un popolo che nei decenni, probabilmente a causa di ideologie e post-ideologie figlie del cosiddetto pensiero debole, ha progressivamente perso la tempra di una comunità di destino. Gli italiani si inebriano in flash mob alla finestra quale surrogato di una socialità perduta che è tutt’altro rispetto all’essere popolo: a dettare le regole della socialità 4.0 da riprendere e consumare sui social è, semmai, più l’impotenza nel non poter fare l’apericena delle diciannove. La coscienza nazionale imporrebbe altre riflessioni a tutti. E anche se, almeno per una volta, il Tricolore non viene sventolato per le speranze calcistiche degli azzurri, è questo un magro bottino rispetto all’essere Nazione e anche all’essere sinceramente comunità.
Eppure, basterebbe la lezione che ormai diversi decenni or sono ci diedero i Piccolo di Calanovella per farci riflettere e ricordarci come l’esser isolati può costituire tutt’altro che chiusura, ma occasione per ripensare il mondo contemporaneo secondo geometrie diverse, direttrici esistenziali di un tempo altro, che vanno al di là dello stesso divenire temporale.
Sì, perché i tre fratelli Lucio, Casimiro e Giovanna Piccolo si isolarono dal mondo per vivere la loro esistenza a Villa Piccolo, nella dimora di famiglia che si trova sulle colline che sovrastano la Piana di Capo d’Orlando. Fu La Madre Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò a decidere il destino di tutti, quando nel 1932, a causa della crisi economica e non solo che investiva l’aristocrazia palermitana, decise di abbandonare per sempre Palermo e confinare se stessa e i tre figli in quella radura isolata alle porte dei Nebrodi.
Eppure l’isolamento dei Piccolo di Calanovella è ben diverso da quello nostro e dei nostri contemporanei italici o italioti, perchè nonostante le loro uscite dalla Villa fossero rare, non vi fu sofferenza in quella scelta. Anzi, fu quella la molla che diede la spinta necessaria affinché le esistenze dei tre rampolli di casa Piccolo diventassero tutt’uno con l’arte: Lucio, poeta, in quella villa concepì versi di bellezza assoluta che non sfuggirono a Eugenio Montale. Casimiro inventò il genere degli acquerelli magici che lo rendono ancora oggi pittore unico nel panorama siciliano e italiano del Novecento e Giovanna (nome di battesimo Agata Giovanna), attorniata da uno stuolo di giardinieri, realizzò meravigliose creazioni botaniche con piante rare, i cui segni ancora oggi sono presenti nei giardini della Villa.
E non fu un caso se quella stessa solitudine della Villa fu scelta anche da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cugino dei Piccolo, che soggiornò spesso nella dimora orlandina, luogo che gli permetteva di ritrovarsi e ricevere spunti formidabili per quello che sarebbe divenuto il romanzo più importante della storia letteraria italiana.
La solitudine non, perciò, come isolamento e detenzione, ma quale possibilità di un ascolto più profondo di se stessi e di uno sguardo più ampio verso il mondo, le sue mode, il suo frenetico andare, ma da un punto di vista distinto e non distante. Presente anzi più che mai nella contemporaneità, per osservarne l’anima e l’essenza più profonda. Ecco perché i Piccolo sono oggi attualissimi, in un’epoca in cui tutti siamo chiamati a restare nelle nostre abitazioni per evitare il propagarsi di un virus sconosciuto.
In ciò ci vengono in soccorso i guanti di Casimiro, sì proprio i guanti bianchi che il Barone di Calanovella indossava sempre, come a mantenere un solco tra se stesso e il mondo del divenire. E noi oggi che i guanti dobbiamo indossarli per forza quando usciamo da casa, siamo solo un pallido riflesso di quella sapienza. I guanti bianchi del Barone, infatti, sono tutt’altro che fobia, bensì la volontà di preservare qualcosa di sacro da influenze estranee. Ciò mediante i terminali più evidenti, le proprie mani, strumenti di lavoro per chi come lui armava pennelli e macchine fotografiche. Che per un’artista come Casimiro erano alla stregua di oggetti sacri e dunque, da non insozzare con ciò che attiene a piani meno elevati. Ma i guanti bianchi sono anche segno di purezza, poiché attraverso il tocco, ciò che attiene a una dimensione assoluta non abbia ad esser compromesso a contatto con un mondo sempre più basso: guanti come simbolo di libertà, dunque, non di coercizione, espressione una influenza sottile che arriva fino coloro che sono chiamati a preservarla e portarla innanzi. Oltre il tempo presente.
E poco male se Casimiro e d’altronde anche i suoi fratelli, preferivano un dialogo con l’Assoluto e le sue forme rispetto alle moltitudini e alle folle. La risposta sta nell’arte stessa, nella magia che unisce questo e l’altro mondo in un unico afflato ora poetico, ora botanico, ora pittorico. Le descrizioni in rima di Lucio Piccolo e le riproduzioni su tela o carta degli spiriti elementali di Casimiro ne sono, d’altronde, la rappresentazione paradigmatica.
In ciò la solitudine rappresenta l’occasione che i Piccolo hanno avuto per incastonare le loro vite nell’immortale fluire cosmico. E del resto, vita e morte all’interno della Villa erano e sono un tutt’uno: non v’è dicotomia, ma un’unica solidale dimensione, nella quale ciò che è e ciò che appare non sempre attengono a quel che oltre 250 anni di post illuminismo rifiuterebbe di ammettere, per cantare un improbabile trionfo del razionale e del banalmente materiale.
Sub specie Aeternitatis potrebbe dirsi a suggellare un patto tra uomini e Dei che va oltre il tempo e lo spazio e perciò, oltrepassa gli stretti limiti di un appartamento, di una casa, di una villa, e finanche del mondo intero.
Per questo, restar nelle proprie abitazioni non è mica una detenzione, ma – per pochi, pochissimi forse – in ciò risiede una possibilità di ritrovare una strada ancora non del tutto cancellata dall’ipocrisia dei tempi ultimi.