Si sostiene spesso che gli elettori hanno i rappresentanti politici che si meritano. Per fortuna, come per tutti i luoghi comuni, anche questo è talvolta (sovente?) smentito da fatti che dimostrano una maggiore saggezza dei cittadini (o di una loro frazione non trascurabile) rispetto all’insipienza dei politici. Prendiamo “quota 100”, un provvedimento che già alla nascita dimostrava un clamoroso scollamento rispetto alle promesse della campagna elettorale.
E che, secondo gli ultimi dati, mostra un gradimento assai inferiore alle attese di chi l’ha fortemente voluto. «Al primo consiglio dei ministri cancellerò la riforma Fornero», tuonava Salvini a ogni comizio, spesso anche omettendo il termine riforma e scatenando folle poco propense a interrogarsi sulla solidità e sulla saggezza complessiva della misura. Nella realtà, si è trattato di molto meno di una cancellazione, anche se sempre di una misura inopportuna sotto il duplice profilo della sostenibilità economica e dell’equità.
La riforma
La contro-riforma del primo governo Conte ha infatti stabilito un “temporaneo” allentamento – della durata di tre anni – dei requisiti per il pensionamento richiesti dalla riforma del 2011, senza preoccuparsi degli equilibri finanziari del sistema previdenziale e senza domandarsi se l’intervento fosse rivolto ai lavoratori più meritevoli da un punto di vista sociale (e non lo è, giacché lascia fuori quelli con carriere più discontinue, specificamente le donne).
La ricetta del consenso
La misura, confezionata per allargare il consenso nel breve termine, seguiva una classica ricetta demagogica, basata sul riconoscimento politico di un “diritto” disancorato da considerazioni di natura economica sui suoi costi (inclusa la rinuncia ad altri obiettivi, magari socialmente più importanti per il Paese) e su chi li avrebbe dovuti sostenere. Essa poggiava inoltre sull’ipotesi (generalmente errata) che per far posto ai giovani nel mondo del lavoro è necessario ricorrere al pensionamento anticipato di lavoratori non più giovani ma in buona salute e con occupazione stabile che invece, continuando a lavorare un po’ più a lungo, rafforzerebbero, con i contributi, sia la propria situazione economica nell’età anziana (oggi la gran parte delle pensioni è bassa anche a causa delle basse età alle quali sono state ottenute), sia il benessere collettivo. La temporaneità di “quota 100” ne limita i costi complessivi, comunque molto ingenti, ma contiene la classica “polpetta avvelenata” per il governo che, alla scadenza, dovrà gestire il percorso verso la normativa precedente, ciò che comporterà inevitabilmente un nuovo “scalone”, e perciò scontento e malessere. Sarà infatti politicamente molto difficile giustificare la diversità di trattamento tra chi matura quota 100 con 62 anni di età nel 2021 e chi, trovandosi nella stessa condizione nel 2022, dovrà ancora aspettare i 4-5 anni mancanti al raggiungi-mento dei 41-42 anni di anzianità o dei 67 di età. E se quota 100 dovesse essere prorogata, magari solo con qualche piccolo aggiustamento, approfittando, in un modo o nell’altro, dei fondi europei, si tratterà di una nuova occasione mancata, di una distrazione di fondi necessari alla crescita del Paese.
I risparmi
Qui interviene però, a facilitare le scelte del governo, la maggiore avvedutezza dei cittadini (rispetto ai loro governanti) con il loro atteggiamento di relativa cautela rispetto a quota 100. Ciò comporterà qualche miliardo di risparmi sugli oneri già preventivati e di questo ci si può rallegrare. Ancora più importante, però, è la dimostrazione del fatto che un certo numero di cittadini sembra avere rinunciato a un vantaggio immediato in vista di una maggiore sicurezza per il futuro. Questi italiani hanno dimostrato di preferire il lavoro a un’uscita anticipata a condizioni vantaggiose. È un segnale importante e, al tempo stesso, un monito. Dopo anni di sacrifici, di illusioni e di promesse disattese i cittadini mostrano di comprendere che solo dal lavoro può derivare il benessere economico loro e delle loro famiglie; non già dalle facili promesse elettorali. E che la crea-zione di lavoro, che non può essere indefinitamente sostituita da bonus o da presunti redditi ai quali non corrisponde creazione di valore aggiunto, richiede istruzione e formazione, investimenti e imprese competitive e profittevoli. E realizzano l’impotenza della politica rispetto al grande obiettivo di inclusione nei processi formativi (a tutte le età, giacché il mondo cambia rapidamente) e produttivi.
II segnale
Si tratta di un segnale importante che la politica ha il dovere di non sprecare in un ennesimo ripiegamento su scelte poco lungimiranti, ma che anzi deve ampliare facendolo diventare il grande collante della tanto ricercata rinascita del Paese.
Elsa Fornero
La Stampa, 17/08/2020
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