Quando qualcuno ricorre a citazioni antiche per adattarle alla situazione del momento, provando a utilizzarle a sostegno delle proprie convinzioni, corre di solito due rischi: il primo, generico, perché prescinde dal contesto politico in cui quelle parole furono pronunziate, mentre il secondo è più specifico, perché di solito si ferma alla citazione senza andare a leggere fino in fondo ciò che in quell’antica occasione fu effettivamente detto e fatto.
Penso che il ministro on. Federico D’Incà, li abbia corsi entrambi allorché, su Repubblica del 22 agosto, si è limitato a ricordare che il resoconto sommario della IIa Sottocommissione della Costituente del 18 settembre 1946 attribuisce a Luigi Einaudi, che aveva osservato che “quanto più è grande il numero dei componenti un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace di attendere all’opera legislativa che le è demandata”; che, ovviamente, è principio assolutamente condivisibile in via di principio.
Parto da qui per evidenziare che se il ministro avesse letto quel resoconto sino alla fine, avrebbe potuto constatare che al termine della discussione, col voto favorevole proprio di Luigi Einaudi (ma anche di altri eminenti costituenti come Calamandrei, Codacci Pisanelli, Leone, Lussu, Mortati, Perassi, Vanoni, solo per citarne alcuni), venne approvata la proposta di eleggere un deputato ogni 100.000 abitanti, che è poi il rapporto sostanzialmente corrispondente a quello ancora vigente, visto che l’attuale numero di 630 deputati, rapportato a circa 60.483.973 abitanti odierni, comporta l’elezione di un deputato per ogni 96.006 abitanti.
Com’è noto, quel rapporto fu poi modificato dalla stessa Commissione e infine approvato dall’Aula, col consenso di Einaudi, in ragione di un deputato ogni 80.000 abitanti e di un senatore ogni 200.000, e ciò sino alla legge costituzionale n. 2-1963 che avrebbe infine introdotto il rispettivo numero fisso di 630 e 315, senza di che, stando ai costituenti (e quindi anche a Einaudi) i deputati di oggi sarebbero stati 756 e i senatori 302,
C’è poi il rischio generico, quello di prescindere dal contesto del tempo, che vedeva un’Assemblea eletta con un sistema proporzionale più che puro, in cui anche partiti che avevano raggiunto un risultato, che oggi si direbbe di prefisso telefonico (0,09, 0,22, 0,31,0,44, solo per dirne alcuni), erano riusciti a portare in Aula la giusta rappresentanza di esigue minoranze del Paese, e in cui il plenum della stessa Costituente, nella seduta del 23 settembre 1947, avrebbe coerentemente approvato uno specifico ordine del giorno, presentato dall’on. Giolitti, che testualmente recitava “L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei Deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale”.
Un ordine del giorno puntualmente rispettato dalla stessa Assemblea – in sede, ahinoi, solo legislativa e non costituente – con l’approvazione delle leggi 6-1948 per la Camera e 29-1948 per il Senato, che più proporzionali di com’erano non potevano essere, e che, in versioni appena modificate, hanno consentito al Paese, proporzionalmente rappresentato anche da minoranze piccole ma politicamente rilevanti, di crescere civilmente ed economicamente nella c. d. prima Repubblica, sino ai suoi, purtroppo infausti, esiti finali e all’introduzione di diverse specie di normative più o meno maggioritarie.
Sta di fatto che la riduzione dei parlamentari che sarà oggetto del prossimo referendum costituzionale “oppositivo” (e non “confermativo”, come impropriamente si usa dire) s’inserisce per l’appunto in un contesto elettorale sostanzialmente maggioritario, per via dell’attuale meccanismo di voto obbligatoriamente congiunto tra collegi uninominali e circoscrizioni, che finirà inevitabilmente per offrire alla più forte delle minoranze elettorali l’assoluto predominio del prossimo Parlamento in termini addirittura amplificati per via del minor numero di seggi disponibili, consentendo a chi avrà la ventura di prendere un voto in più di ottenere una maggioranza qualificata in entrambe le Camere (267 deputati sul plenum di 400, 137 senatori sul plenum di 205-206), potendo così modificare anche l’assetto ordinamentale del Paese e i suoi equilibri costituzionali senza neppure il fastidio di sottoporre le modifiche al responso popolare.
Per sostenere il SI, il ministro D’Incà ha poi finito per dare anche i numeri, provando a confermare l’equivoco che sta avvelenando tutta questa discussione, e così sommando gli attuali componenti delle nostre due Camere e raffrontandoli con quelli delle sole prime Camere degli altri paesi europei; un metodo “grossolano”, il cui utilizzo è comprensibile nella polemica politica, ma è assolutamente ingiustificabile quando viene sostenuto in sede scientifica da qualche isolato docente universitario.
Quando invece, dovrebbe essere evidente che, vista l’assoluta diversità di funzione e di formazione delle seconde Camere degli altri paesi, il rapporto va fatto solo tra le rispettive Camere basse, con la nostra Camera che, quanto a rappresentatività (deputati/popolazione) si colloca già oggi al 24° posto tra quelle dell’UE, e domani sarà ultima.
Chi volesse saperne qualcosa in più può consultare in proposito i dossier predisposti dal Servizio Studi del Senato n, 71-06 del 2019 e 280 del 2020, nei quali si può leggere testualmente che “Non appare possibile procedere a un raffronto analogo a quello per le Camere basse in quanto in gran parte dei casi i componenti delle Camere alte non sono eletti direttamente dai cittadini e rappresentano istanze di altro tipo (ad esempio, espressione di istanze territoriali, oppure sono nominati su proposta del Governo o con elezioni di secondo grado, ecc.)”.
E, se poi si vogliono proprio sommare i numeri delle nostre due Camere, allora bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di sommare anche quelli di entrambe le Camere degli altri paesi non federali, col che il risultato non cambierebbe di granché.
In tale ipotesi, in Inghilterra (con 1426 parlamentari tra Deputati e Lords) il rapporto sarebbe di un parlamentare ogni 45.935 abitanti, in Spagna (con 616 tra Deputati e Senatori) sarebbe di uno ogni 75.746 abitanti, e in Francia (con 925 tra Deputati e Senatori) sarebbe di uno ogni 72.672 abitanti.
Così procedendo, in Italia, coi 945 parlamentari di oggi, si ha un rapporto di uno ogni 64.004 abitanti, più o meno in linea cogli altri grandi paesi, mentre coi 600 di domani il rapporto sarebbe di un parlamentare ogni 100.806 abitanti, facendoci conquistare ancora una volta il fanalino di coda della rappresentatività.
E tutto ciò senza considerare che andrebbero scorporati dal dato italiano i deputati e i senatori (oggi, rispettivamente, 12 e 6, dopo la riforma 8 e 4) che vengono eletti nei collegi esteri in rappresentanza di quasi cinque milioni di cittadini colà residenti.
Il che mi fa concludere che, se oggi Einaudi potesse esprimersi nell’attuale contesto politico, troverebbe certo il modo di argomentare, come fa da tempo la Fondazione che porta il suo nome, il suo sonoro NO a una riforma costituzionale che riduce la rappresentatività delle nostre istituzioni parlamentari con la risibile scusa del risparmio di un caffè l’anno per ogni italiano.
E qui, se non fossimo in sede referendaria, e quindi in procinto di valutare solo ciò che il Parlamento ha già approvato, si potrebbe anche aprire il discorso sul nostro bicameralismo paritario, per il quale potrebbe tornare utile anche l’insegnamento di Luigi Einaudi, che, nei lavori della Costituente, immaginava una seconda Camera rappresentativa delle Regioni, ma anche delle professionalità esistenti nel Paese.
Ma questo, ovviamente, è un altro discorso, che il NO al referendum potrebbe propiziare a partire dal 21 settembre.