Quando la crisi finanziaria investì l’area euro una decina di anni fa, la risposta delle autorità fu bifronte. Per salvare i governi dal default, il sistema europeo puntò sulla condizionalità: l’idea che ogni prestito potesse essere concesso dagli altri Paesi solo se i beneficiari si fossero sottoposti a riforme interne e correzioni di bilancio a tappe forzate. Invece, almeno fra il 2009 e il 2013, per le banche venne tollerato l’approccio opposto: i governi che avessero voluto salvare le banche attive nel loro territorio, potevano farlo senza sottostare alle regole europee sugli aiuti di Stato. Germania e Olanda lanciarono operazioni colossali di sostegno al loro settore finanziario.
Il quadro per le banche cambiò a partire dall’agosto 2013 con l’arrivo di norme sempre più stringenti, che prevedono di sforbiciare gli attivi di azionisti, creditori e (se necessario) depositanti prima che una banca accedesse a un aiuto pubblico. Ma questa condizionalità riguarda investitori e clienti, non la struttura stessa delle banche. Vale la pena ricordarlo ora, perché questa crisi sta segnando un’inversione di rotta. Con gli interventi della Banca centrale europea, il Recovery Plan e i prestiti sanitari del fondo salvataggi (Mes), la condizionalità sui governi sparisce o è diluita. Una condizionalità sempre più puntigliosa invece si sta facendo largo quale cornice per gli interventi che presto diverranno necessari per le banche.
Il quadro
Che molti istituti abbiano bisogno di aiuto tra non molto è ormai sotto gli occhi di tutti. Andrea Enria, presidente del Consiglio di sorveglianza della Bce, ha dichiarato più volte che la recessione da Covid-19 può generare in Europa 1.400 miliardi di crediti deteriorati. Sarebbe una somma superiore a quella lasciata in eredità dalla Grande recessione di dieci anni fa. Più indicativa ancora è l’analisi di vulnerabilità che la Bce ha condotto di recente su 86 istituti dell’area euro (responsabile dell’area banche nell’esecutivo di Francoforte è lo spagnolo Luis de Guindos, vice della presidente Christine Lagarde). Da quel rapporto pubblicato a fine luglio emergono due elementi destinati a pesare: nel caso di uno scenario di contrazione «severa» dell’economia (e con il doppio tuffo in recessione dell’autunno, ci potremmo avvicinare), la distruzione di patrimonio per le banche in media può essere del 5,7% delle attività ponderate per il rischio. In sostanza la doppia recessione può tradursi in un colpo durissimo, pari a quei 1.400 miliardi di crediti bancari in default. La seconda informazione dell’analisi della Bce segnala però che questa crisi non è uguale per tutti. Per le banche già oggi più deboli, Covid-19 può spazzare via oltre 8% di patrimonio (Common Equity Tier 1) in rapporto agli impieghi tenuto conto della loro rischiosità. Significa che Covid-19 nei prossimi due anni può quasi azzerare il patrimonio di alcune banche o portarlo molto sotto ai minimi consentiti dalla Bce.
Le vittime designate
Già, ma quali sono le vittime designate? L’analisi della Bce mostra che gli istituti universali, considerati sistemici a livello globale, oggi appaiono meno vulnerabili all’ondata di piena della recessione. Sono invece più fragili le aziende di credito minori, quelle troppo legate alla distribuzione di servizi allo sportello e quelle «diversificate». In sostanza la crisi da coronavirus sta selezionando vincenti e perdenti, in un’industria finanziaria europea che è già nel complesso perdente a livello globale: in Borsa le grandi banche americane capitalizzano in media valori superiori a quelli dei loro attivi tangibili; quelle dell’area euro in media valgono metà o meno di metà dei loro attivi tangibili. È come se gli investitori pensassero che le aziende del credito europee valgono più fatte a pezzi e svendute che da vive. La loro redditività, in molti casi, non basta a generare le risorse sufficienti a digerire le perdite sui crediti finiti in default. Le banche in Europa sono troppe, spesso inefficienti (anche in Germania, non solo in Italia), spessissimo tecnologicamente obsolete.
Il fattore bad bank
Di qui la proposta che Enria, il presidente (italiano) del Consiglio di sorveglianza della Bce, sta rendendo sempre più esplicita: applicare alle banche condizioni di riforma interna, se avranno bisogno di aiuto. L’idea che il regolatore coltiva da tempo è di intervenire con qualcosa di simile a un’unica «bad bank» europea o più probabilmente con «bad bank» pubbliche nazionali costituite su base di criteri comuni europei e messe in rete. Queste ultime acquisirebbero gli attivi delle banche finiti in default per la recessione da Covid e lo farebbero a prezzi non speculativi, non così bassi da imporre agli istituti perdite insostenibili. Ma ci sarebbero, appunto, condizioni. «La bad bank sosterrebbe banche zombie? – si è chiesto di recente Enria in un’intervista sulla stampa belga -. No, non nella misura in cui abbiamo una forte condizionalità». Nelle sue parole, non è difficile capire quali sono le richieste. «L’industria bancaria europea è entrata nella crisi in uno stato di fragilità strutturale: capacità produttiva in eccesso, nessun consolidamento dopo l’ultima crisi, un’efficienza dei costi relativamente bassa e molte banche non hanno investito abbastanza nelle nuove tecnologie».
Fatevi comprare dai grandi
Il messaggio ai banchieri, specie quelli degli istituti minori, non poteva dunque essere più chiaro: se volete salvare le vostre aziende con l’intervento di «bad bank» nazionali che rilevino le vostre perdite, razionalizzate e vendete le vostre aziende ad altre aziende di credito più grandi. Consolidate il mercato. Così la Bce sta dicendo ai banchieri di ridurre drasticamente il numero di posti di lavoro in banca, quelli ai vertici: un po’ come chiedere ai tacchini di votare a favore del Natale, in cambio di un parziale salvataggio pubblico dell’allevamento. L’occasione, dal punto di vista del regolatore, è irripetibile. Né è difficile capire che Enria vorrebbe approfittare della crisi per vedere più fusioni fra banche di diversi Paesi dell’area euro. La partita è solo agli inizi. Ma la chiarezza di idee degli arbitri europei sembra superiore a quella di dieci anni fa.