Quanto può durare il divieto di licenziamento?
Pandemia, Lockdown, tutti a casa per non diffondere il contagio.
Nell’ambito dei numerosi e doverosi interventi pubblici volti ad evitare un deterioramento permanente del tessuto produttivo il divieto di licenziamento appare una misura logica e ragionevole: quali impieghi alternativi potrebbero mai trovare i malcapitati che dovessero venire colpiti da una tale disgrazia? Mentre le frontiere si chiudono e le economie si congelano, che prospettive possono esserci per chi dovesse disgraziatamente rimanere senza lavoro?
Provando a ragionare sulla questione in modo lucido e scevro da paraocchi ideologici ed eccessi emozionali, legati al momento particolare, la realtà appare più complicata di quanto non appaia a prima vista.
Per quanto tempo possiamo congelare la situazione?
Cosa succede quanto il divieto di licenziamento decade (perché prima o poi è logico che succeda)?
Salvare il “posto di lavoro” è la scelta migliore per il lavoratore e per l’impresa?
Posto che la sospensione dei licenziamenti può essere una misura solo temporanea, un punto di partenza per ragionare sulla questione è distinguere tra misure emergenziali di breve e brevissimo termine e risposte strutturali.
Nella fase più acuta della crisi la decisione dovrebbe legittimamente dipendere dalla cultura del paese e dall’atteggiamento più o meno propenso al cambiamento. Una società dinamica, come ad esempio gli Stati Uniti, preferirà tutelare i lavoratori rispetto ai posti di lavoro: ad oggi, secondo l’Economist i sussidi sono stati a tal punto generosi da da risultare, per sette americani disoccupati su dieci, più elevati rispetto ai salari percepiti in precedenza.
Viceversa, in un tessuto sociale ed economico meno avvezzo alla flessibilità risulta preferibile congelare lo status quo: come avvenuto con le misure di Furlough / fuh·low / nel Regno Unito e di cassa integrazione in Italia, dove si è giunti a vietare espressamente il licenziamento.
E’ del tutto evidente che la resa dei conti arriva nella fase immediatamente successiva: non si può congelare l’economia, né tantomeno vietare i licenziamenti per sempre.
Alcune imprese e alcune mansioni lavorative non avranno semplicemente più ragione di esistere a causa delle modifiche strutturali delle nostre abitudini e del tessuto della società che erano già in corso prima della pandemia e da quest’ultima sono state accelerate. Pensiamo ad esempio a lavoro e allo studio a distanza, all’utilizzo di canali digitali da parte di cittadini e consumatori, con la crescita del commercio elettronico e all’automazione dei processi amministrativi.
Il mondo non si ferma e il tempo non può scorrere a ritroso: un gran numero di lavoratori dovrà riconvertisi a mansioni diverse da quelle che svolgeva in precedenza e numerose imprese dovranno modificare l’oggetto della propria attività per andare avanti. In quest’ottica, tutte le misure volte alla tutela dei posti di lavoro e al salvataggio delle imprese finiscono con ostacolare il necessario processo di trasformazione dell’economia e rallentare significativamente il percorso di ritorno a livelli di crescita economica precedenti all’emergenza sanitaria.
Le obiezioni più frequenti a questo tipo di ragionamento riguardano la possibilità di reimpiego per i lavoratori un’ipotesi quasi blasfema per la cultura italica al punto da indurre, non troppo tempo fa un noto politico a bollarla come una “cazzata liberista”.
Già, come possiamo chiedere a un direttore di banca cinquantenne, con una casa al mare e una barca da mantenere, di mettersi a fare le pulizie per un quarto dello stipendio che percepiva? Quale impiegato amministrativo, abituato a percepire uno stipendio a prescindere dai risultati conseguiti, potrebbe accettare di mettersi a fare consegne in bicicletta?
Si tratta per lo più di estremizzazioni di comodo volte il pregiudizio ideologico nei confronti del cambiamento e a nascondere il disprezzo “politicamente scorretto” nei confronti di certe attività non ritenute abbastanza dignitose.
Fuori dagli esercizi retorici, la realtà è più sfumata, per rimanere sui due esempi fatti, quando una banca non può più permettersi di stipendiare un direttore di cui non ha più bisogno, quest’ultimo potrebbe mettere a frutto le competenze maturate negli anni offrendosi come consulente indipendente per la gestione finanziaria di imprese e i privati. L’impiegato amministrativo, quando la sua mansione diventasse ridondante a causa delle automazioni di processo, potrebbe concentrarsi sull’assistenza alla clientela e la gestione dei reclami, attività che vedranno una forte crescita man mano che i canali digitali diventano più diffusi.
La verità più sconveniente di questo processo, a prescindere dalle accelerazioni impresse dalla pandemia, ha a che fare con la tendenza a collegare le retribuzioni e il mantenimento del lavoro più ai risultati raggiunti che alle ore passate al terminale (che si trovi in ufficio o a casa).
Il rovescio della medaglia è costituito dai cosiddetti “giacimenti occupazionali “, felice espressione coniata da Pietro Ichino nel suo ultimo libro sull’intelligenza del lavoro: esiste un gran numero di posti di lavoro che le imprese italiane non riescono a coprire per mancanza di candidati con le necessarie competenze tecniche e professionali. Sul tema avevo lanciato sul blog Econopoly24 la proposta di assegnare come massima priorità le risorse del Recovery Fund al finanziamento della formazione necessaria a consentire di svolgere questi lavori in modo coordinato con le imprese che avrebbero dovuto realizzare le assunzioni.
Dunque cambiare lavoro, o modo di lavorare, lungi dall’essere una bestemmia esecrabile, diventerà nel tempo una necessità sempre più impellente: cercare di opporsi a questo processo ineluttabile costituisce uno sforzo vano e un inutile spreco di risorse.
Per questi motivi, la recente proroga del divieto di licenziamento può ben annoverarsi tra le buone intenzioni che, secondo il noto adagio, lastricano la strada per l’inferno. Le risorse che al momento vengono destinate al “congelamento dello status quo” in tema di occupazione, andrebbero opportunamente indirizzate verso il sostegno della delicata fase di transizione nella quale i lavoratori si dedicano a ricercare o, in molti casi, inventarsi e creare ex novo occupazioni alternative rispetto a quelle svolte in precedenza.
Con riferimento alle imprese, al posto dell’accanimento terapeutico indirizzato a mantenere in vita attività non più utili, andrebbe incoraggiato un processo di ordinata liquidazione delle realtà che non hanno più ragione di esistere e di incentivo alla trasformazione per quelle che possono seguire strade alternative.
Come avevo provato a spiegare anche nel mio ultimo post la trasformazione del nostro sistema economico che era già imminente prima della pandemia, diventerà ancora più urgente e rapida nella delicata fase di ripartenza che ci attende nei prossimi mesi.
Per adattarsi a questo processo inesorabile e governare in modo efficace le ricadute sul tessuto sociale la classe dirigente del nostro paese dovrebbe dimostrare una apertura al cambiamento che purtroppo al momento sembra mancare del tutto.