C’erano una volta i partiti. In essi si trovavano i politici, che da che mondo è mondo hanno una pessima fama, salvo che quando si crede a chi promette di mandarli tutti via, se poi ci riesce, li si rimpiange. Nei partiti regnava una concorde discordia e raramente qualcuno andava via. Ogni tanto si facevano i congressi, grandi discorsi, mozioni contrapposte. I vincitori venivano accusati di avere truccato i numeri, mentre gli sconfitti si appellavano alla base e agli ideali, a loro dire traditi. Al congresso successivo capitava che si dessero il cambio. Si combattevano con il coltello fra i denti, ma fra loro si chiavano amici o compagni.
Questo mondo antico fu già da tempo messo in discussione. Pareva, a sentire i critici, che si fosse creata la partitocrazia e che questa avesse generato la spartitocrazia. Oibò, che brutto andazzo. Sicché presero piede forze nuove, mosse dal rifiuto di congressi, mozioni, correnti e segrete stanze, amanti delle assemblee e delle decisioni prese collettivamente. Stagione esaltante, ma anche un filino esaltata. Presto si capì che le assemblee erano sì affollate, ma le decisioni erano prese da un collettivo che era esclusivo, ove sedevano i militanti più degni espressione della base. Fatto è che anche lì c’erano divisioni, idee e interessi diversi, e capitava che i vincitori venissero accusati d’un colpo di mano e i perdenti s’appellassero alla base, che ritenevano tradita non più negli ideali, oramai desueti, ma nelle “istanze”, che di preciso non riuscivano a definirsi, ma si sa che talora furono ammobiliate e subaffittate. La stagione si concluse con alcuni che, ritenendosi duri e puri, pensarono d’ammazzare qualcuno, altri, sapendosi mosci e impuri, sballarono e talora morirono, in questo, almeno, dimostrandosi più puri dei puri, mentre i più, quelli di sempre, quelli che forse sono la base, si fece gli affari propri, crebbe e si travestì. Alcuni li vedi ancora, un tantinello invecchiati, a far la morale che manco i loro nonni.
Se c’erano una volta i partiti e poi ci fu la volta delle assemblee, che successe poi? Si mescolarono le cose. Da una parte si risolse il problema di eleggere il capo, perché quello metteva il suo nome nel simbolo ed era chiaro che manco un congresso avrebbe potuto cambiarglielo. Dall’altra i partiti si generavano a getto continuo, al punto che taluni politici dovevano trovarsi in due e anche in tre, in modo da popolarli. Tramontati gli ideali e chiuse le istanze, si scatenò la denominazione di fantasia: animali, piante, paesi. Benché sembrasse un oscillare continuo fra il partito preso e il partito della pagnotta.
Non poteva durare. Si era entrati nell’era digitale. Nacque allora una nuova stagione di politici. Il successo arrise a chi intrattenne le folle sfasciando computer, indicandoli quale demonio corruttore della libertà, salvo poi, forse per averli visti dentro, decise che in quelli era il solo posto santificato in cui si sarebbe salvata la libertà. E così, finalmente, la base poteva contare più del vertice. Solo che a tenere la contabilità era un gruppo ristretto, ma dotato di capacità davvero ragguardevoli: pensate che la pensava sempre come la base, o era la base a pensarla sempre come pensava il gruppo dei capi, o, ma non pensiamoci troppo. Fatto è che un brutto giorno si scoprì che anche nel gruppo c’erano idee e interessi diversi, sicché decisero di contarsi e capitò che i vincitori venissero accusati d’avere contato solo quello che faceva loro comodo, mentre gli sconfitti ritennero d’essere i soli veri interpreti di quel che vuole la base e dei principi enunciati alla creazione.
Cari piccini, voi credete d’avere capito e, pertanto, di potere concludere che la fine della favola riporta al suo principio, ma vi sbagliate. Al principio, sotto interessi e contumelie, coltellate alla schiena e trame, c’era una qualche idea del perché affannarsi tanto, ciascuno supponendo di avere una ricetta con cui salvare l’umanità dal male, alla fine è diverso, le idee, se ci sono, si rimpiattano per benino, e la zuffa s’anima attorno al dilemma di che altro si potrebbe fare nella vita se, per caso, a un certo punto, si dicesse agli astanti che almeno un paio di giorni, da qui alla sudata pensione, si dovrà pur essere andati a lavorare.