Cagna in mezzo ai maiali. Così Francesco De Gregori definiva, senza allontanarsi tanto dalla verità, la città di Roma e il suo essere, tra il fascinoso e il grottesco.
Mai come in questi giorni risulta nitida la disfatta, completa, delle forze politiche e dei comitati d’affari che per decenni hanno governato questa città, tra scandali (tanti), successi (pochi) e cronache (le più varie). Virginia Raggi avrà un arduo compito: le auguriamo, comunque, di riuscire a non fare peggio dei suoi immediati predecessori che hanno saputo, con una determinazione scientifica, annientare le residue chanches di vittoria dei partiti di cui erano espressione.
Eppure questa città aveva dimostrato qualcosa, sembrava, un tempo non troppo lontano, che Roma avesse ancora qualcosa da dire al mondo. E invece no. Siamo di nuovo all’anno zero. Ma perché? Ormai conosciamo bene i vincitori. Siamo sicuri di conoscere anche gli sconfitti?
Chi ne esce con le ossa rotte è sicuramente l’area di sinistra che per decenni ha controllato e determinato le scelte del Partito democratico romano, un contenitore curiosissimo, pittoresco, altoborghese, fittiziamente proletario intorno al quale, fino a qualche anno fa, ruotavano personalità come Goffredo Bettini, Chicco Testa, Giovanni Malagò ma anche Nanni Moretti, Carlo Verdone, Fiorella Mannoia, Serena Dandini, Maurizio Costanzo. Figure diverse, potenti, influenti, che hanno rappresentato l’immagine plastica di quella sorta di organizzazione del cultural-imprenditorial-chicpolitik che a Roma ha dettato legge per più di venti anni. Che il sindaco di Roma fosse un Argan, un Petroselli, un Rutelli, un Veltroni, un Marino, loro c’erano, erano lì,gattopardoscamente (passateci il termine) a dimostrare chi comandava davvero nella città. Il Pd dell’epoca, con tutte le sue declinazioni nominative, era il partito che piaceva alla gente che piaceva. Insomma, per aver governato quasi vent’anni, fin troppo era durato.
Chi esce col minimo storico storico da questa tornata elettorale è proprio questo Pd, un Pd che non ha mai digerito Renzi e del quale non ha mai subito il fascino, il carisma. Due degli ultimi quattro candidati premier del centrosinistra, non a caso, iniziarono la propria corsa nazionale con la fascia di sindaco di Roma sul petto. Pretendere che diventasse questo partito, “dannoso e pericoloso” (Fabrizio Barca cit.) una succursale della segreteria fiorentina del Largo del Nazareno era velleitario. E le aspirazioni di Giachetti, spedito al massacro, lo hanno dimostrato fin da subito.
L’altro grande sconfitto ha un solo nome e cognome: Alfio Marchini. Gli analisti che hanno maldestramente accostato il suo risultato a quello di Giorgia Meloni peccano di miopia. Marchini è l’unico, tra i candidati, ad aver avuto la possibilità di assistere alla disfatta di Marino proprio tra i banchi della Assemblea Capitolina. Poteva anticipare tutti ed in effetti è partito per primo. Salvo poi arrivare ultimo.
Raccogliere esattamente gli stessi voti di tre anni prima nonostante lo schieramento ai limiti del militaresco dei più grandi organi di informazione romani e il sostegno di Forza Italia dimostra quanto vuoto d’idee ci fosse attorno a questa candidatura, troppo di sinistra per essere votata a destra e troppo aliena per intercettare i voti dell’area cultural-imprenditorial-chicpolitik, che anzi, stavolta ha preferito rimanere a parlare dei film di Ozpetek e di Elio Germano sorseggiando il thè a Capalbio.
Eccoli, dunque, i due grandi sconfitti: la sinistra e Marchini (che dalla sinistra, nonostante le sue smentite, proviene). Due sottoprodotti del veltronismo che, nel farsi concorrenza sleale tra loro, hanno aperto le porte al populismo a cinque stelle.
Ed è in questa scena che capiamo, infine, quant’è cambiata Roma, la cagna in mezzo ai maiali. Se una volta le oche starnazzanti avevano impedito la salita di Brenno sul Campidoglio stavolta, di contro, gliel’hanno permessa.
Da Gli Immoderati del 24 giugno 2016