Nelle esportazioni andiamo forte. Nei dodici mesi che vanno dal maggio 2020 a quello di quest’anno il nostro surplus commerciale, la differenza fra quanto importiamo e quanto esportiamo è arrivato a 83 miliardi di euro. Prima di noi solo la Cina e la Germania. Sì, anche la Russia, ma con i prodotti energetici. Siamo campioni mondiali in molte filiere di prodotti. Il valore complessivo delle esportazioni è giunto a superare i 500 miliardi. Il dato positivo pone anche un problema: le imitazioni, i falsi, le contraffazioni, il fasullo, l’italian tarocco. Nel solo settore alimentare il valore del falso italiano è stimato in 100 miliardi, forse troppo, visto che ne esportiamo per 50. Qui lo chiamiamo “Italian sounding”, ma deve trattarsi di una specie di vendetta, visto che quello sarebbe falso inglese. Cosa fare?
Intanto rendersi conto che la falsificazione è un derivato del successo. Nessuno imita quel che non si vende. Poi considerare che non necessariamente i due mercati, quello del vero e quello del falso, si sovrappongono, togliendo il secondo fatturato al primo. Nei prodotti di lusso, ad esempio, è ragionevole supporre che gli acquirenti dei falsi non siano i potenziali clienti degli autentici. Essendo comunque un danno, se non solo o prevalentemente di fatturato sicuramente di immagine e di percezione della qualità, prima d’inscenare piagnistei continentali potremmo utilmente impegnarci nello smantellare quel genere di mercato nelle nostre strade: a cinquanta metri da Palazzo Chigi (sede del governo) e da Montecitorio (sede della Camera dei deputati) si possono comodamente comprare prodotti contraffatti e in totale evasione fiscale. Non il modo migliore per dimostrare che s’intende combattere quel fenomeno.
Da ultimo è balzato agli onori della cronaca il “Prosek”, che produttori croati metterebbero sul mercato a imitazione del nostro Prosecco. Contrasteremo questo tentativo. Nel farlo, però, sarà bene ricordare che, qualche volta, siamo noi stessi a ciurlare nel manico: imbottigliamo prodotti le cui vigne, se fosse realistica la provenienza che il nome evoca, dovrebbero occupare spazi assai più grandi dell’intera area coltivata, così come vendiamo, che so, pistacchi o capperi che con molta fantasia possono essere prodotti nei piccoli centri cui si attribuiscono. Maggiore disciplina rafforzerebbe le pretese di esclusiva originalità. Ma questi sono dettagli, perché il tema più forte è un altro: hanno provato in diversi a imitare la Nutella, ma hanno perso perché a produrla è una multinazionale con dna italiano, la Ferrero.
Essere forti consente due cose: a. difendersi dalle imposture con i propri mezzi; b. il consumatore identifica il prodotto con il marchio e il marchio con il prodotto. La prima cosa scoraggia le piratate, la seconda toglie loro mercato, perché l’acquirente non vuole una roba tipo quella, vuole esclusivamente quella. Le imitazioni a bassa qualità perdono attrattiva, mentre quelle di fascia alta servono a far dire: assaggia questa eslcusivissima crema di nocciole, mica è Nutella. Che è buona, ma la Nutella resta Nutella. Fine della pubblicità gratis.
Torniamo all’inizio e all’orgogliosa rivendicazione della nostra potenza d’esportazione: dovremmo avere più Ferrero. Esportiamo prima di tutto meccanica, farmaceutica e via andando, ma dove il prodotto si rivolge direttamente al pubblico la forza commerciale è importante e favorisce il fatturato. Abbiamo mille produttori di altissimi livello, ma ci servono più giganti. Il che comporta favorire la loro crescita dimensionale e gli accorpamenti. La difesa più efficace è quella. Si chieda l’intervento di autorità e giudici, sapendo, però, che il mercato globale offre insperate opportunità ai piccoli, ma si balla alla musica che fanno i grandi.