Le decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 sulla questione della incompatibilità comunitaria della disciplina nazionale (i.e. art. 1, commi 682 e 683, della legge n. 145/2018, e dell’art. 182, comma 2, del decreto-legge n. 34/2020, convertito dalla legge n. 77/2020) sono un precedente unico nel loro genere: anziché porsi come decisioni secundum legem, ambiscono ad essere decisioni de legibus, che addirittura dant legem.
Al di là, infatti, della condivisibilità delle enunciazioni espresse, quel che colpisce è l’inversione dei ruoli tra giudice amministrativo e legislatore.
Nel voler dipanare una problematica indubbiamente complessa, il Consiglio di Stato sembra andato oltre la giusta misura col dimenticare, o meglio travalicare la funzione “nomofilattica” propria dell’Adunanza Plenaria.
Come è noto, la nozione di nomofilachia, scolpita nell’art. 65 del r.d. n. 12/1941 e ripresa dall’art. 99 del D. Lgs. n. 104/2010, sta a:
– significare “custodia delle norme”, cioè salvaguardia dalle loro alterazioni; di conseguenza
– garantire l’attuazione esatta della legge nel caso concreto, realizzando la giurisdizione in senso stretto; nonché
– assicurare la formazione di indirizzi interpretativi uniformi volti a mantenere l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza.
In breve, la nomofiliachia è la massima espressione dell’idea di stabilità e di certezza del diritto ad opera di un elevato e imparziale corpo di tecnici del diritto.
Non si ignora che ai tempi d’oggi, contraddistinti da un forte disordine normativo, se non addirittura da una grave crisi della legge e, per l’effetto, da rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione sempre più insicuri ed imprevedibili, la funzione nomofilattica del giudice amministrativo ha assunto una portata più ampia rispetto a quella originariamente prevista dall’art. 65 del R.D. n. 12/1941.
L’indebolimento e la dispersione della capacità normativa spesso inducono il giudice amministrativo ad assumere pronunce dai toni orientati verso la sistemazione: che però non debbono mai trasmodare in espressione di una funzione nomopoietica, o meglio nomotetica (il porre norma, non solo l’applicarle) che il nostro Ordinamento non permette ai giudici.
Perciò, le decisioni del giudice amministrativo giammai potranno assurgere a fonti del diritto. Diversamente, si rischierebbe di porre nel nulla uno dei principi cardini della Costituzione, ossia quello dell’art. 101, secondo comma, in forza del quale il giudice amministrativo è soggetto alla legge.
É essenziale, proprio per la sicurezza e l’uniformità del diritto e per assicurare la certezza dei rapporti, che vengano sempre tenuti distinti i poteri pubblici volti a dare diritto (la Politica) da quelli volti a solo dire, cioè accertare, il diritto medesimo (la Giustizia).
La demarcazione pare invece totalmente violata da queste inedite decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021, che reca valutazioni che, per tenore ed effetto, sarebbero di esclusiva spettanza della Politica.
Si veda, in particolare, il capo 48 di entrambe le pronunce, per il quale l’Adunanza Plenaria, invocando in maniera esorbitante la funzione nomofilattica, si investe della potestà di stabilire come deadline dell’operatività di tutte le concessioni in essere la data del 31 dicembre 2023, e per di più indipendentemente dall’intervenuta individuazione o meno del soggetto subentrante.
Fuori dunque dai suoi binari costituzionali e dalla separazione die poteri che è a base della Costituzione, il giudice amministrativo è arrivato ad affermare che «eventuali proroghe legislative del termine così individuato (al pari di ogni disciplina comunque diretta a eludere gli obblighi comunitari) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo, doverosamente legittimato a considerare, da quel momento, tamquam non esset le concessioni in essere».
In pratica, il Consiglio di Stato non soltanto si sostituisce alla Politica, ma vorrebbe sbarrarle la sua strada maestra, la legislazione.
Non solo. Aggiungendo che qualsiasi organo amministrativo sarebbe legittimato a disapplicare motu proprio le norme che dice non in linea con la disciplina comunitaria, le decisioni vanno a generare un autentico caos nelle coste italiane. Altro che rimedio alla crisi della legge e certezza del diritto! Qui si rischia di irreversibilmente innescare la decadenza del diritto! Chiunque allora potrebbe farsi usbergo di fantomatiche incompatibilità con la disciplina comunitaria per sottrarsi all’obbligo di applicare una legge nazionale. Figurarsi le disparità di trattamento!
C’è dunque una clamorosa invasione di campo. Lo dimostra che l’Adunanza Plenaria, pur avendo espressamente affermato di essersi limitata a rendere enunciazioni di principio, lasciando così ai giudici a quo (il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana e la V Sezione del Consiglio di Stato) il compito di definire le controversie sia in rito che nel merito, in realtà, specie con riferimento al processo, è finita con l’assumere decisione “definitiva”.
La dichiarata inammissibilità degli interventi ad adiuvandum è, infatti, senza rimedio: è difficile ipotizzare che al riguardo il CGRS o la Sezione V del Consiglio di stato possa ribaltare la pronuncia della Plenaria.
La verità è che, come ci ha insegnato Aristotele, in medio stat virtus. Anche a ritenere il diritto come un insieme di regole e di norme fluide, come tali, non sempre declinabili in prescrizioni certe, il giudice amministrativo deve sempre restare l’interprete, e non il generatore del diritto, cioè mai trasformarsi in “fonte del diritto”. Questo vuole l’art. 101 della Costituzione, la principale evocazione della separazione dei poteri. In quest’ottica, le pronunce giurisprudenziali vanno improntate a una interpretazione prudente, coerente con la ratio delle leggi e, più in generale, con il complesso ordinamentale in cui si vanno ad incasellare.