Il problema non è la morte, ma la vita. La morte ci riguarda tutti perché è parte della vita. Ne è il certo epilogo. I gesti apotropaici sono simpatici, ma dobbiamo molto alla morte, che senza quella la gran parte della riflessione umana non avrebbe senso, neanche sarebbe esistita. Ma non è sul filosofico che va buttata, perché l’errore rilevante è nel piglio con cui s’affronta il tema del fine vita, della morte codificata.
La morte è un fatto certo, non un diritto. Che senso ha parlare della morte come diritto? Se sei credente non puoi riconoscertelo, se non sei credente sai che non c’è un dopo. Che razza di diritto è? Né si può parlare della morte come se arrivarci per vie diverse sia paragonabile. Una cosa è il suicidio, che risponde comunque a una scelta di chi muore, altra è l’eutanasia, che segue la scelta di chi sopravvive. Sono cose diverse, per non dire opposte. Spesso il secondo dilemma lo si risolve nell’ombra e nell’umana pietà, ma non è di ciò che può occuparsi una legge. Né la fede né la ragione o la scienza ci aiutano a sapere quando, battendo il cuore, la vita già non c’è. Gli uni e gli altri sappiamo che quella vegetativa non è vita umana, sicché va a conclusione. Ciò non va confuso con la volontà di non vivere, perché si tratta di un terreno buio in cui supponiamo già più non si viva.
Il problema grosso è nel primo caso, quando la volontà c’è e la capacità no. Qui il tema non è il diritto alla morte, ma stabilire chi può disporre della vita. Per i credenti la vita, prima ancora della nascita, dal concepimento, è un dono. Quel che riceviamo in dono non era nostro e tornerà a non essere nostro. Se ne ha l’uso. Chi non affida il quesito alla fede non per questo ha già una risposta pronta e univoca, a voler semplificare si può pensare alla vita come la tessera di un mosaico collettivo, sicché far cadere una tessera sfregia l’insieme, o come a un bene che fa capo solo a chi la vive, un’identità individuale. La prima cosa più di sinistra, la seconda più di destra, se vogliamo metterla su questo piano banalotto, senza che s’abbia a riferirsi a bene o male.
Solo per quanti pensano sia l’individuo a disporre della vita ciò vale anche per la morte. E, del resto, gli altri, i sostenitori del valore collettivo possono pure supporre che il suicidio sia un reato, ma teorico, perché se commesso non punibile. Almeno non da queste parti. Dunque, per i primi: come fa a essere libero di vivere, quindi di morire, chi non può materialmente darsi la morte? Tutto qui il dilemma da sciogliere: punisco chi lo aiuta a realizzare la propria sovranità sulla vita? Accertata la volontà, non lasciata all’orecchio di uno, penso che no. Non c’è nulla da festeggiare, ma neanche da punire.
La tipologia della divisione vistasi in Parlamento lascia intendere che stanno procedendo per partito preso, appassionati di morte e non di vita. Che è poi il funerale della politica.
La Ragione