Aspettare e sperare può essere ricetta buona per qualsiasi malattia, ma di assai dubbia efficacia. Per rimediare ai malanni la cosa migliore è riconoscere i sintomi, associarli al problema reale e non a quello apparente, quindi provvedere in modo coerente. Quando in una società ricca ci si trova ad affrontare il problema dei lavoratori poveri si deve fare molta attenzione a non rimanere prigionieri dei propri pregiudizi, così approntando rimedi che rispondono a quel che ci appare e non a quel che è, peggiorando le cose. Tanto per capirsi: salario minimo e sussidi servono a nulla, su quel fronte. Molto può essere fatto, conoscendo e ragionando.
Il primo indice utile lo fornisce Eurostat, secondo in Ue c’è una media del 9.2% di lavoratori poveri, che guadagnano troppo poco, mentre in Italia si sale all’11.8%. Più di due punti e mezzo sopra la media indicano un problema del nostro mercato del lavoro. Uno studio messo a punto dal Ministero del lavoro ci avverte che i lavoratori con una retribuzione inferiore al 60% della mediana sono il 25%. Attenzione: la mediana non è la media, ma un indicatore di posizione (senza tornare alle dispense di statistica: la parte alta della curva si chiama “moda”, una cosa “di moda” è una cosa che fanno in tanti, concentrandosi; alla metà della distribuzione raffigurata si trova la mediana; mentre la media, calcola i valori e non la distribuzione, da cui il celeberrimo pollo di Trilussa, sicché a tutti ne tocca uno all’anno, ma se non ne hai avuto nessuno è <<perché c’è un antro che ne magna due>>). Ai valori del 2018, quindi prima della pandemia, un lavoratore su dieci (10%) vive in un nucleo familiare con un reddito inferiore al 60% della mediana. Fine dei numeri, veniamo al dunque.
Un approccio ideologico punta alla lotta di classe: sono i padroni che sfruttano i lavoratori e li pagano troppo poco, affamandoli. Un approccio assistenzialista ha la soluzione a portata di mano: redistribuiamo la ricchezza con i bonus e le sovvenzioni, portando la giustizia su questa terra. Gli uni e gli altri sono nati in un mondo talmente ricco da non avere posto loro il problema di produrla, la ricchezza: certo che il fattore lavoro deve essere remunerato secondo il suo valore, ed è per questo che sono fondamentali i sindacati del lavoratori, che da noi divennero sindacati dei pensionati; certo che la spesa pubblica redistribuisce ricchezza, ma se anziché farlo in servizi lo fa in denaro o sta redistribuendo i soldi degli altri lavoratori, cui tocca pagare le tasse, o sta mangiandosi quel che non ha, generando debito e qui, per equanimità, si fanno entrambe le cose.
Se, invece, si guarda pragmaticamente al fenomeno si scopre che i lavoratori poveri non sono quelli pagati poco, ma quelli che lavorano poco. Serve a nulla fissare un minimo di paga oraria, se le ore lavorate, nell’anno, restano poche. Difatti quel fenomeno si concentra nel settore alberghiero e della ristorazione e in quello di “altri servizi”, compresi quelli alle famiglie, dove i “padroni” sono altri lavoratori. Il fattore impoverente è il tempo lavorato. Il rimedio non sta nell’aumentare i salari, perdendo produttività e producendo meno ricchezza, ma nell’aumentare il valore del lavoratore e del lavoro, il che richiede formazione, tanto che molti lavori che richiedono formazione e offrono alta remunerazione restano scoperti.
Quella è la via maestra, anche perché, dati raccolti dal Centre for Economics and Business Research, nel 2022 l’Italia resterà all’8° posto mondiale in quanto a produzione di ricchezza (nel 2036 saremo al 16°, non perché si decresca, ma perché il mondo, evviva, crescerà più velocemente). E se calcoliamo la ricchezza prodotta e posseduta pro capite siamo enormemente avanti, assieme agli europei e occidentali in generale. Siamo noi il mondo ricco. Competiamo in qualità, per la quale serve istruzione, non in quantità prodotta e sfruttamento. Il guaio è che fra la parte dequalificata occorre metterci un pezzo rilevante della classe politica, per giunta riccamente retribuita.
La Ragione