Il primo Presidente della Repubblica, si sa, fu un napoletano: Enrico De Nicola. Ciò che non si sa è che il primo capo dello stato repubblicano avrebbe dovuto essere un altro napoletano: Benedetto Croce.
Il filosofo, però, fece il “gran rifiuto” perché – disse – “l’ufficio al quale mi si vorrebbe ora chiamare esce troppo da questi limiti e mi fa gravemente sentire l’inadeguatezza ad esercitarlo”. Proprio così, Croce – l’italiano più importante e il filosofo più noto al mondo in quel tempo – disse di sentirsi “inadeguato” a ricoprire la carica di presidente della repubblica.
La storia ha dell’incredibile e, ascoltata oggi, assume dei caratteri inediti non solo sul piano dei documenti ma anche per il suo significato. Le cose andarono così.
Era il giugno del 1946. Il 2 giugno, con un referendum, era stata archiviata la monarchia, scelta la repubblica ed era stata eletta l’assemblea costituente della quale faceva parte lo stesso Croce.
Il 22 giugno Pietro Nenni scrisse a Croce la seguente lettera: “Illustre amico, i miei compagni della Direzione del Partito desiderano sapere se Ella lascerà porre la Sua candidatura alla Presidenza della repubblica. Noi saremmo lieti di dare a Lei i nostri voti nella convinzione, attinta alla coscienza che abbiamo dei più alti interessi del Paese, che nessuno meglio di lei può oggi, di fronte al mondo, rappresentare l’Italia e garantire con sicura lealtà la vita della repubblica italiana”.
Il segretario del partito socialista era a Roma e a recapitare la lettera a Palazzo Filomarino a Napoli dovevano pensarci Sandro Pertini e Ignazio Silone, sennonché a fare da postino fu Renato Morelli, come si apprende dalla stessa nota che Croce scrisse in calce alla lettera.
Il 25 giugno Croce rispose con questa lettera che è doveroso leggere integralmente: “Pregiatissimo amico, la fiducia che la direzione del Partito socialista italiano ha voluto attestare alla mia persona, mi ha indotto a rinnovare un esame di coscienza che più volte, in casi simili, avevo fatto e che aveva avuto costantemente la stessa conclusione. Io, com’Ella sa, ho speso la vita negli studi; se sebbene da tre anni in qua, per dovere di cittadini, abbia prestato opera nella politica, ho sempre badato a tenerla nei confini di quel che so e posso onestamente fare in relazione alla mia capacità e alle mie forze. Ma l’ufficio al quale mi si vorrebbe ora chiamare esce troppo da questi limiti e mi fa gravemente sentire l’inadeguatezza ad esercitarlo. Perciò non mi è consentito di lasciare porre la mia candidatura a presidente della Repubblica italiana e debbo pregare Lei di presentare le mie scuse e i miei vivi ringraziamenti ai suoi colleghi della direzione del Partito, che hanno voluto darmi una prova di benevolenza della quale serberò sempre memoria”.
Un testo esemplare che mostra in controluce la quintessenza della filosofia di Croce il cui caposaldo è la distinzione tra pensiero e azione senza la quale sono vanificate la libertà e la cittadinanza. Croce, che pur prese parte alla vita politica in senso stretto – fu ministro con Giolitti e dopo la caduta del fascismo ricostruì il Partito liberale italiano e fu più volte ministro – non perdeva mai occasione per sottolineare che la partecipazione alla politica non va fatta in nome della verità o della scienza ma per dovere di libero cittadino.
Non era suo costume nutrire ridicoli sentimenti di onnipotenza. Quando Albert Einstein nel 1944 gli scrisse ricordando Platone e il “governo retto da filosofi”, Croce rispose dicendo che la filosofia non è severa filosofia se non conosce, con l’ufficio suo, anche il suo limite che è quello di preparare l’azione ma non di sostituirla: “In questa seconda sfera a noi, modesti filosofi – disse – spetta d’imitare un altro filosofo antico: Socrate, che filosofò ma combatté da oplita a Potidea, e Dante, che poetò, ma combatté a Campaldino”.
In calce alla minuta della lettera indirizzata a Nenni, Croce scrisse alcune note in cui riferisce che il suo nome era stato avanzato da socialisti e comunisti, “ai quali si unirebbero certamente altre persone”, mentre i democristiani sostenevano Orlando. Quindi aggiunse: “Il Morelli mi ha domandato come io vedessi la candidatura dell’Orlando.
Ho risposto che lo credevo l’unico che si offra nella situazione presente e che, del resto, io non avrei preso mai il passo sull’Orlando, più vecchio di me e già capo del governo italiano”. Lo stile è l’uomo, diceva Buffon.
Questa storia nell’Italia odierna sembra scendere dalla luna. Invece, è storia patria. Il lettore che volesse approfondire deve reperire, se ci riesce, il libro Dall’ “Italia tagliata in due” all’Assemblea costituente. Documenti e testimonianza dai carteggi di Benedetto Croce (Il Mulino, 1998) curato da Maurizio Griffo (con prefazione di Gennaro Sasso).
Qui, in chiusura, solo un altro particolare: qualche anno dopo, quando al Quirinale c’era il suo amico Luigi Einaudi, Croce disse no anche alla nomina di senatore a vita.
Il Corriere della Sera – Il Corriere del Mezzogiorno