Non si avvertirebbe il bisogno di scrivere un Elogio della Prima Repubblica (La nave di Teseo) come ha fatto Stefano Passigli, se la cosiddetta Seconda Repubblica avesse dato buona prova di sé.
Invece, come è ormai noto all’universo mondo, non solo la Seconda Repubblica non è stato un tempo di buongoverno, ma è anche scomparsa rapidamente lasciando il campo a una Terza Repubblica che, si sa, non gode di ottima salute, tanto da lasciar intravedere il profilo della Quarta.
A questo punto, però, il numero delle «repubbliche italiane» inizia ad essere spropositato, soprattutto se si considera che al di là dei cambi delle leggi elettorali – dal proporzionale al maggioritario, dal Mattarellum al Porcelleum al Rosatellum – non c’è mai stata né una riforma della forma di governo, né un mutamento della forma di Stato.
Dunque, siamo sicuri che la Prima Repubblica, che pur non è il nostro tempo, sia morta e sepolta? A ben vedere risiede qui il senso del lavoro di Passigli, che da un lato fornisce un rapido schizzo storiografico della seconda metà del Novecento italiano e dall’altro, per contrastare il populismo, invita a recuperare il ruolo delle élites senza il quale ogni sistema politico e istituzionale prima o poi diventa vittima della demagogia al governo.
Una cosa va chiarita: il titolo del libro di Passigli non è provocatorio ma descrittivo o, se si vuole, controintuitivo. Vale a dire che Stefano Passigli – che ha insegnato Scienza della politica in Italia e negli Stati Uniti, è stato deputato e membro della Commissione Bicamerale per le Riforme – si occupa dei luoghi comuni che riguardano la Prima Repubblica e li sconfessa.
I principali pregiudizi sono il rapporto debito/Pil, la instabilità, la frammentazione, l’ideologia e Passigli – dati alla mano – li sconfessa uno alla volta: nella Prima Repubblica vi è crescita economica e non del debito, i governi variano ma la politica è stabile, la frammentazione partitica è nulla, l’ideologia è inserita in un quadro internazionale di riferimento – Stati Uniti/Unione Sovietica – che la rende realistica.
Le tre fasi della Prima Repubblica – il centrismo, il centro-sinistra, la «solidarietà nazionale» – caratterizzano la crescita economica e sociale del Paese che sarebbe dovuta sfociare nel passaggio «storico» dalla «democrazia bloccata» alla «democrazia dell’alternanza».
È proprio questa lettura politica della storia repubblicana la vera novità del libro di Passigli: la periodizzazione. Per l’autore la Prima Repubblica non finisce nel 1992, con Mani Pulite, il cambio della legge elettorale e la fine del pentapartito, bensì con la morte di Aldo Moro (1978) che sancisce la fine della possibilità di uscire dalla conventio ad excludendum quale caratteristica fondamentale della «guerra fredda».
Le periodizzazioni storiografiche non sono mere convenzioni. Stabilire quando inizia e quando finisce qualcosa significa esprimere giudizi, ora positivi e ora negativi.
Nel caso della tesi del testo di Passigli significa che, una volta individuata la storia della Prima Repubblica nel trentennio che va da De Gasperi a Moro, ne consegue che l’epoca successiva del cosiddetto Caf – Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani – viene esclusa dalla storia del «buon governo» della Prima Repubblica per diventare quel periodo di decadenza in cui ritorna la politica dei «blocchi», delle esclusioni, si afferma la spesa, la crescita del debito, dilaga la corruzione e nascono quei giudizi che diventeranno pregiudizi.
Ce n’è quanto basta per essere in disaccordo o condividere. Ossia per necessariamente conoscere un passato senza il quale non andiamo da nessuna parte.
Il Corriere della Sera