Tagliare

Tagliare

La spesa pubblica va tagliata. Nell’era dello spendere e spandere sembrerà eterodosso, ma solo perché si tende a distrarsi. Sarà per superficialità, per scetticismo o per viruscentrismo, ma si è trascurata la decisione più importante, presa all’ultimo Consiglio dei ministri: ogni anno, per tre anni, il Ministero dell’economia presenterà un programma di taglio della spesa pubblica.

Non solo non è contraddittorio, ma è coerente con l’opportunità, e anche il cimento, d’investire i molti soldi messi a disposizione dall’Unione europea, in un misto di regalo e prestito. Soldi che devono andare tutti a investimenti. Ivi compreso il sostegno a riforme profonde del nostro mercato e di parti rilevanti della macchina pubblica, a cominciare dalla giustizia. Mentre la spesa corrente, quella che si ripete per coprire costi e bisogni fissi, di suo non produttiva di nuova ricchezza, deve essere tagliata. Fino a poco tempo addietro tale operazione veniva inspiegabilmente denominata in inglese (spending review), sarà bene praticarla in italiano. In quel tempo tale necessità veniva stoltamente indicata come torvo “rigore” economico recessivo. Come mai possa essere produttivo lo spreco economico non fu mai spiegato, ma il denaro del contribuente fu comunque generosamente elargito in conto campagne elettorali.

Quel che non è chiaro a molti è che in un Paese molto indebitato la spesa corrente improduttiva costa. E siccome l’inflazione cresce, portando, prima o dopo, a un rialzo dei tassi, costerà sempre di più. Il che dovrebbe rendere ancora più chiaro quanto sia conveniente indebitarsi a tassi agevolati, come consentono i fondi europei. L’errore da non commettersi è inseguire l’inflazione con spesa pubblica compensativa, cosa che è già sulla punta della lingua di quelli che prima se la presero con il “rigorismo”, che non ci fu, e ora si straziano per l’inflazione. Richiamarli alla coerenza è doppiamente inutile: non ne hanno la vocazione e manco capiscono il nesso.

A proposito di inflazione: commettendo l’errore di cui sopra, combattendo il rialzo dei prezzi con le indicizzazioni, che è come combattere l’alcoolismo con un buon bicchiere, ai tempi della lira di cui quelli avevano (hanno ancora?) nostalgia, l’inflazione superò il 20%. Un flagello. Allora si chiamava, ed era: la tassa più iniqua. Ebbene, scese rompendo l’inseguimento e portando il Paese verso l’euro. Con l’euro scomparve, anche se nessuno aveva voglia di ricordare che la tassa più iniqua non la pagavamo più. I tedeschi, che il rigole lo praticano anziché blaterarne, la detestano. Per i Paesi molto indebitati è anche un modo per svalutare il debito.

Per prepararci a mari agitati tagliare la spesa corrente e alleggerire con quei risparmi la pressione fiscale sarà un modo per gettare a mare un po’ di zavorra. Se gettassimo via anche la demagogia troglodita, non sarebbe un male.

La Ragione

Share