Giustizia ma anche libertà

Giustizia ma anche libertà

Nel campagna per il voto sulla separazione delle funzioni fra pm e giudici si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato

Le due seguenti citazioni, tratte da Montesquieu, potrebbero ispirare le scelte di una parte dei cittadini italiani nella prossima campagna referendaria. Scrive Montesquieu: «È però un’esperienza eterna che ogni uomo il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti». Ne consegue che «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere».

Frasi che risalgono al Settecento ma che oggi possono aiutarci a capire perché il referendum sulla giustizia simbolicamente più importante — anche se gli effetti pratici si manifesterebbero solo nel lungo periodo — sia quello sulla separazione delle funzioni fra giudici e pubblici ministeri.

Separazione delle funzioni, non (ancora) delle carriere. Ma sarebbe comunque un primo, significativo passo in quella direzione.

Proviamo a sollevarci al di sopra delle polemiche contingenti. In trent’anni di conflitti fra magistratura e politica gli argomenti usati da una parte e dall’altra sono sempre gli stessi. Molti di noi li conoscono tutti a memoria. Consideriamo piuttosto le «filosofie» che si scontreranno sulla separazione delle funzioni, proviamo a rendere esplicito ciò che altrimenti resterebbe implicito, inespresso.

In quella campagna referendaria si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato in una democrazia. Possiamo chiamarle la concezione paternalista e la concezione liberale.

Sgombriamo il campo da un falso problema. Ci saranno, come è inevitabile, molte esagerazioni polemiche da una parte e dall’altra. C’è chi dirà che se passasse la separazione, per la giustizia italiana sarebbe una catastrofe e c’è chi dirà che finalmente avremo, di colpo, un ottimo sistema di giustizia rispettoso delle libertà dei singoli. Niente di tutto questo.

All’inizio, e probabilmente per un lungo periodo, non cambierebbe nulla. Né nei comportamenti dei pm né in quelli dei giudici. Proprio perché separare le funzioni non è ancora separare le carriere. Pm e giudici continuerebbero ad essere governati dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, a fare parte delle stesse correnti, ad essere rappresentati dallo stesso sindacato, eccetera.

Nel lungo periodo, però, qualche cambiamento ci sarebbe. Anche se lentamente, molto lentamente, muterebbero le mentalità. Si modificherebbero, per cominciare, gli atteggiamenti del pubblico, finirebbe la pessima abitudine di chiamare «giudici» i procuratori (con il terribile effetto pratico di scambiare gli atti delle procure per sentenze e tanti saluti, nella consapevolezza generale, alla presunzione di non colpevolezza).

Alla fine costume e prassi giudiziarie si adeguerebbero. E forse l’effetto finale sarebbe una vera e propria separazione delle carriere. Ma, appunto, ciò non si realizzerebbe dalla sera alla mattina. Ci vorrebbe tempo, molto tempo.

Tuttavia, intorno a questo referendum più che agli altri si giocherà una partita decisiva per il futuro della democrazia italiana. Con questa prova referendaria decideremo se tutelare la libertà del cittadino sia altrettanto importante che assicurare alla giustizia i colpevoli di reati, decideremo in sostanza se ci interessa vivere in una autentica democrazia liberale oppure se, per perseguire altri nobili scopi (colpire la corruzione o la criminalità organizzata o altro) siamo disposti a sacrificare certe garanzie di libertà. Non c’è soltanto la strada scelta dall’Ungheria di Orbán. Ci sono molti e diversi modi per rendere illiberale una democrazia.

Gli argomenti usati da coloro che difendono l’unità delle funzioni (e quindi anche delle carriere) sono chiari. Essi dicono che, proprio allo scopo di tutelare meglio il cittadino, occorre che il pubblico ministero partecipi di quella che essi chiamano la «cultura della giurisdizione», ossia che egli non sia distante, professionalmente e culturalmente, dal giudice. In controluce si scorge una concezione paternalistica dell’amministrazione della giustizia (e quindi anche della democrazia).

È il pm che operando senza essere limitato da forti contrappesi, contempera, grazie alla sua cultura e alla sua professionalità, il perseguimento dei reati e la tutela delle libertà costituzionalmente garantite.

La concentrazione del potere che si è realizzata a causa dell’unità delle carriere, per i sostenitori di questa tesi, non è affatto un pericolo. La salvaguardia per tutti è data, in sostanza, dalla professionalità del pubblico ministero.

La tesi opposta è di chi, d’accordo con Montesquieu, pensa che la libertà sia tutelata quando, e solo quando, a un potere se ne contrappone un altro, quando le prerogative dell’uno sono bilanciate dalle prerogative di un altro, quando «il potere frena il potere».

Se il pubblico ministero è solo l’avvocato dell’accusa con pari peso e dignità rispetto all’avvocato difensore e il giudice è davvero «terzo» non per buona volontà o per gentile concessione ma perché glielo impone l’assetto proprio dell’organizzazione giudiziaria, allora, e solo allora, è sperabile che l’amministrazione della giustizia si avvicini almeno un po’ a un antico ideale, che diventi possibile perseguire i reati senza passare come rulli compressori sulle libertà costituzionalmente garantite.

Non è dalla «benevolenza» del pubblico ministero che dobbiamo aspettarci il rispetto di quelle libertà, è da un sistema di «pesi e contrappesi» ben funzionante. Ciò che l’unità delle carriere, come si è potuto constatare in tutti questi anni, non è stata in grado di assicurare. Ci sarà pure una ragione per la quale, con le sole eccezioni di Italia e Francia, la divisione delle carriere sia la regola in tutte le democrazie liberali. Separando le funzioni cominceremmo a incamminarci su quella strada.

Magari il Parlamento che, diciamolo, negli ultimi tempi non ha sempre dato brillanti prove di sé, ci sorprenderà. Magari il referendum sulla separazione decadrà perché il Parlamento riuscirà a fare una buona legge ispirata al principio liberale sopra evocato.

Forse arriverà un giorno in cui avremo un giudice compiutamente «terzo», al di sopra dell’accusa e della difesa, grazie alla scomparsa dei legami organizzativi fra giudici e pubblici ministeri. E i pubblici ministeri, a loro volta, dovranno fare i conti con un forte potere controbilanciante. Secondo le regole, sempre faticose e difficili, da cui dipende la tutela delle libertà.

Il Corriere della Sera

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