Un variopinto gruppo trasversale ha preso a sostenere una tesi bislacca: non condividiamo quel che sta facendo il governo, ma non poniamo problemi alla sua stabilità, intendiamo restare al governo.
Che sia sulle spese per la difesa, la riforma fiscale o i beni del demanio, la conseguenza di questo governativismo antigovernativo è che si deve evitare di affrontare questioni divisive, meglio rimandare, menare il torrone, restare in surplace.
Del resto: c’è la guerra. Ecco, appunto, c’è la guerra, ma questo suggerisce l’approccio opposto: pedalare, accelerare, non perdere tempo. Altrimenti dai danni si passa ai disastri.
Sperando che i vaccini bastino a mettersi i blocchi da pandemia alle spalle (la pandemia no, c’è ancora), avendo passato un 2021 da record, s’immaginava una crescita, per l’anno in corso, pari al 4.7%. La settimana scorsa scrivevamo che il 3%, cui sembrava orientato il governo per il nuovo Documento di economia e finanza era ancora ottimistico. Siamo già al 2.8. E sempre che la guerra possa in qualche modo concludersi.
Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ricorda che solo la pandemia porta con s’è un centinaio di milioni di persone che tornano in miseria, aggiungendosi ai 700 milioni che già vi si trovano (erano 2 miliardi e la globalizzazione ne ha drenati per 1 miliardo e 300 milioni, evviva). A quella fosca previsione si aggiunge la guerra che, come anche in questo numero approfondiamo, porta conseguenze negative anche in posti lontani dal conflitto.
Tutto questo non deve incantare, ma scatenare. In condizioni più difficili si deve comunque far fruttare il capitale messo a disposizione dall’Unione europea. E si deve correre a velocità doppia verso le riforme, comunque necessarie e vitali.
Scopriamo di avere molte terre incolte. Sarà il caso di ricordare che questo non si deve a oscuri regolamenti o congiure, ma alle conseguenze del protezionismo e dei costi alti. Ma sapevamo già che alla produzione agricola mancano lavoratori e competenze. E manca anche l’acqua, per il 60% assorbita dalle coltivazioni e per un terzo buttata via con acquedotti schifezza. Tutta roba pubblica, in gran parte municipalizzata. Non dobbiamo prendercela comoda, ma correre a cambiare questa condizione. L’alternativa è la miseria.
Ci si scandalizza perché ai concorsi a cattedra un buon numero di candidati viene bocciato e non ci si scandalizza del fatto che agli esami di maturità si promuovono tutti. Ci si dimentica di dire che una buona parte dei docenti bocciati già si trova a insegnare, significando ciò che una parte degli studenti promossi ci arriva in condizione di semianalfabetismo, per colpa della scuola.
Si deve correre, non temporeggiare, perché senza competenza non c’è crescita, specie se non si vuole un’economia bracciantile in cui far lavorare gli altri che non si vogliono fare entrare. L’alternativa alla riforma meritocratica è la subordinazione.
Ci si tira dietro le inchieste giudiziarie, ma rimaniamo con la giustizia più lenta di tutto il mondo civile, il che corrompe e imbastardisce, ma soprattutto induce a non investire, a non sbarcare qui se si hanno alternative e se si è autoctoni cresciuti a portare la sede legale dove per avere un giudice non devi andare a cercarlo in televisione. Stiamo procedendo a piccoli passi, mentre dovremmo fare balzi. L’alternativa è l’inciviltà.
Certo che c’è la guerra. Richiede due cose: a. sbrigarsi; b. contare anche sugli anni a venire. Per la prima cosa necessita una classe politica non solo di parolai trasformisti, ma capace di compiere scelte e guardare al futuro. La seconda una stabilità d’intenti che gente seria dichiarerebbe oggi, talché le prossime elezioni mettano in palio Parlamento e governo, ma non l’Italia.
Certo che c’è la guerra, ma impone di fare pace con la realtà, non di corazzare le teste vuote.