Finita l’insulsa commedia sulle spese per la difesa. Esito scontato. Avviso ai naviganti: “entro il 2028” significa “anche domani mattina”, sempre che la lingua italiana non sia stata sottoposta a votazione fra i non praticanti l’idioma natio.
Nel suo surreale svolgersi, con strani soggetti pronti a sostenere che il tempo di guerra non è quello adatto a spendere in difesa, con bislacche teorie pronte a chiedere i negoziati per la pace e leste nel negare la pecunia necessaria a difendere gli invasi e la loro neutralità, la commedia ha comunque indicato il copione del qualunquismo pronto per accompagnarci verso le elezioni: stiamo tutti morendo di fame, le imprese chiudono, i soldi non bastano, lo Stato provveda a mantenere tutti. E, del resto, è comprensibile tesi in bocca a chi si ritrova mantenuto senza merito alcuno. Quali siano gli effetti di una simile dottrina, ovvero la bancarotta e il falò dei risparmi familiari, interessa poco chi vive alla giornata e nel corso della medesima non ha tempo per codeste quisquiglie tecniche.
Se non ci si vuol fare del male, in un tempo d’inflazione e liquidità, si deve essere capaci di mettere a profitto la seconda, approfittando anche dei mali presenti per attrezzarsi al futuro.
L’inflazione si fa significativamente alta. In Spagna sono ad un passo da quella a due cifre. In Germania viaggia sopra il 7%. Gli Usa sfiorano l’8. Capita dopo lustri di bassissima inflazione, stabilità monetaria e qualche passaggio in deflazione. Per produttori e consumatori un cambio di scenario. Ci siamo arrivati con tre passaggi. Il primo è stato dovuto alla pandemia, ai blocchi e alla recessione, cui è seguita una ripresa della produzione e dei commerci (della vita) che ha ingolfato la logistica e aggravato i ritardi cumulati nelle catene industriali, provocando un aumento dei prezzi. Sgradevole, ma “naturale”. La teoria della Banca centrale europea, che qui illustrammo, era: si tornerà alla normalità e il fenomeno sarà riassorbito. Il secondo passaggio è stata la speculazione. Quando i prezzi aumentano c’è sempre, ma qui non stiamo parlando dei salumieri campioni di lancio dell’affettato incartato, che cade sulla bilancia e viene raccolto in velocità, mettendo in conto anche la forza di gravità, qui a speculare sono stati sia taluni fornitori di materie prime (meglio non dimenticare il Putin mentitore prima d’essere invasore: forniremo tutto il gas necessario, se ora ne diamo meno, facendo aumentare il prezzo, è perché dovreste aprire il secondo gasdotto, che i tedeschi hanno ora chiuso per giusta sanzione), sia certa finanza che aveva scommesso sul calo dei prezzi e s’è ritrovata con i rialzi. La guerra è il terzo passaggio, costringendo a ristrutturare produzioni e forniture, sapendo che pagare di più il gas è nulla rispetto al farsi dominare da un criminale. Ora l’inflazione è per gran parte dovuta alle materie prime energetiche, il che suggerisce di non usare una stretta monetaria, che soffocherebbe la crescita.
I governi possono intervenire e alleviare, ma lo fanno spostando, non rimediando. Non ne hanno gli strumenti. Da noi il costo dei carburanti è diminuito (alla frontiera gli svizzeri ricambiano la nostra passata passione e vengono a fare il pieno da noi) e calano le bollette. Ma nessuno può cancellare la realtà. I qualunquisti della lamentazione non hanno da proporre alcuna soluzione, si limitano a fare i profittatori di guerra.
Eppure da fare c’è. La spesa per la difesa che cresce, nel quadro dell’integrazione europea, per noi è un affare. Sono soldi per la ricerca, l’innovazione e la produzione. Il che si riflette sulla vita civile. Mentre cosa non fare è reso chiaro da una ricerca Inapp-Luiss: abbiamo una spesa per prestazioni sociali pari al 28.3% del pil, sopra la media europea, ma spendiamo per le politiche del lavoro solo lo 0.2, un terzo della media Ue. Finanziamo il non lavoro, ma non il modo di trovare un lavoro. Un veleno che il qualunquismo populista si accinge a chiedere più abbondante.
La Ragione