No al populismo, sì alla globalizzazione. Lavoro e mobilità sociale, fisco, istituzioni: le riforme da fare. Uno spettro si aggira per la politica italiana. Lo spettro del Grande centro. Tutti ne parlano, molti lo sognano, alcuni lo esorcizzano, qualcuno lo teme. Ma che cos’è?
Per molti di coloro che lo sognano, è la riedizione un po’ riverniciata (ma neanche tanto) della Democrazia cristiana, vale a dire quell’offerta politica che ha costituito il perno della politica italiana per il primo mezzo secolo di vita repubblicana. Ma si tratta di un’illusione. Quell’esperienza è un tratto politico intrinsecamente e ineludibilmente connesso a quel periodo storico, e non trasponibile a piacimento. A Guerra fredda in corso, nel paese di doppia frontiera (tra est e ovest dell’Europa e tra sponda nord e sud del Mediterraneo), e con il più grande partito comunista del mondo occidentale, la Democrazia cristiana era il “partito di sistema” che garantiva l’ancoraggio al mondo atlantico, che in cambio ne tollerava gli eccessi e le disinvolture. Caduto il Muro di Berlino e crollato il mondo bipolare, è finito il ruolo storico della Dc.
Per altri invece il Grande centro è la rivincita del compromesso stantio, della velocità immobile, del Gattopardo promosso a programma politico. Dopo tre decenni di “bipolarismo muscolare” – ci dicono con occhi sognanti – deve tornare il tempo delle scelte a metà, del “un po’ a te e un po’ a me”, del compromesso esasperato e del bilancino degli interessi dei corpi sociali in modo che nessuno si senta davvero vincitore. Ma è un errore. Il mondo globalizzato, e la conseguente necessità di stare nella competizione globale con tutte le dimensioni del sistema-paese, mal si concilia con le “scelte a metà”, soprattutto in un paese bloccato come il nostro: servono scelte nette, riforme coraggiose. Magari graduali, e sicuramente “lavorate” con la necessaria – e faticosissima – opera di costruzione del consenso sociale e politico. Ma in Italia, nel 2022 e seguenti, non abbiamo bisogno di scelte per dare l’impressione che tutto cambi, ma in realtà lasciare tutto com’è.
Infine, per qualcuno il Grande centro è semplicemente il modo per resuscitare esponenti politici passati, e usufruire del loro pacchetto di voti sul territorio. Su questa finalità, non credo sia utile spendere ulteriori parole. Basta la mera percezione che l’avventura del Grande centro sia riconducibile a una o più delle tre opzioni precedenti per generare repulsione sia nell’elettorato sia in pezzi di classe dirigente che pure potrebbero esserne validi protagonisti.
Ma se non è questo, allora che cos’è il Grande centro? Personalmente non credo neanche che tale debba essere il suo nomignolo, ancorché giornalistico. Esso, infatti, implicherebbe un chiaro posizionamento mediano all’interno di un segmento politico ben definito: quello “destra-sinistra”. Come argomentai su questo stesso giornale più di tre anni fa (“Ha ancora senso parlare di destra e sinistra? Quel che resta (niente) di due categorie politiche dopo la globalizzazione”) non sono affatto convinto che siano queste le categorie politiche che rappresentano le offerte politiche – e forse neanche le domande – nel mondo post globalizzazione. E soprattutto in Italia, dove le principali battaglie che hanno portato la destra sovranista di Lega e FdI al 40 per cento (e quelle su cui si fanno una spietata competizione tra loro) sono quelle storiche della sinistra extraparlamentare della Prima Repubblica: no al mercato, no alle multinazionali, no alla concorrenza, sì all’aumento di spesa pubblica, alla sovranità monetaria, al deficit senza controlli, alla proprietà pubblica delle aziende di servizi locali, sì ai prepensionamenti.
Il fallimento del bipolarismo
Quella che si deve costruire, invece, è un’offerta politica liberal-democratica. Nettamente distinta dalle due culturalmente dominanti (quella sovranista e quella populista-sindacale) che, non a caso, al loro interno contengono ancor oggi ambiguità rispetto all’atteggiamento da tenere nei confronti della minaccia delle autocrazie, anche in settimane di guerra. Ma che cos’è esattamente, questa offerta politica liberal-democratica?
E’ la casa di chi crede che la globalizzazione non sia né il nemico da combattere, né uno spauracchio innanzi al quale è necessario proteggersi, bensì un’opportunità da sfruttare per allargare il set di capabilities (cit. Amartya Sen) dell’individuo. I liberal-democratici non credono né nella superiorità dell’individuo sulla collettività, né nel suo contrario; ma credono che libertà del singolo – di ogni singolo – significhi allargare il più possibile l’insieme di cose che egli può fare, indipendentemente dalla sua condizione pregressa; è che i progressi di libertà di una società si misurino da quante sono le persone che hanno un ventaglio concreto di scelte più ampio di quello che avevano in passato. In quest’ottica, il bipolare conflitto tra l’enfasi sulla crescita e quella sulla redistribuzione del reddito viene risolto dal più efficiente binomio composto da crescita del reddito e redistribuzione di opportunità. Non sono concetti astratti, o di filosofia politica. In Italia, dopo decenni di chiacchiere sindacali e di cosiddetta “sinistra”, la mobilità sociale rimane tra le più basse del mondo occidentale (Fonte: World Economic Forum). La mobilità sociale non si stimola limitandosi alla statica redistribuzione del reddito, bensì implementando una dinamica redistribuzione di opportunità e, un attimo dopo, innervando la società di incentivi alla selezione meritocratica. Una parola, meritocrazia, in questo paese messa al bando per decenni sia da sinistra che da destra.
L’offerta politica liberal-democratica è genuinamente convinta che il mercato sia ancora il miglior meccanismo di allocazione delle risorse mai sperimentato dall’uomo. Ma con due caveat fondamentali: il mercato non esiste in natura, ma è un’istituzione sociale che va costruita e continuamente manutenuta; per sua essenza ontologica è l’opposto della “legge del più forte” ma è uno strumento di democrazia economica e allargamento di opportunità per imprese e consumatori. In secondo luogo, il mercato non è una religione; è imperfetto, nel senso che vi sono non pochi contesti nel quale fallisce, e che quindi deve essere sostituito da un’azione pubblica efficiente.
I liberal-democratici non inseguono il consenso facile dello slogan accattivante, ma coltivano il fascino indiscreto del ragionamento. L’Italia è un paese con 60 milioni di abitanti, dove poco più di 22 milioni di lavoratori mantengono poco più di 16 milioni di pensionati. E, cosa di gran lunga peggiore, dove questi numeri sono rimasti sostanzialmente inalterati negli ultimi 20 anni. Un paese del genere ha una sola strada davanti: aumentare gradualmente ma costantemente il rapporto tra lavoratori e pensionati, agendo su tre fronti: la stabilizzazione del regime pensionistico, evitando il susseguirsi di riforme populistiche a caccia dei voti dei 50-60enni; le politiche di incremento dell’offerta di lavoro, agendo soprattutto sugli incentivi di giovani e donne e creando un sistema di formazione all’altezza di questo secolo; le politiche di sostegno alla domanda, tramite in primis la riduzione del costo del lavoro.
I liberal-democratici si presentano alle prossime elezioni promettendo una riduzione di tre punti di pressione fiscale su lavoro e capitale nell’arco dei cinque anni di legislatura, finanziata attraverso un graduale ma costante piano industriale del settore pubblico volto a efficientarne il funzionamento e ridurne le esigenze di spesa corrente. Non avranno mai paura di dire ad alta voce che Landini ha organizzato, il 16 dicembre scorso, uno sciopero generale demagogico e populista, oltre che molto poco partecipato; così come non avranno timore nel dire che far leva sulla psicologia degli italiani sul catasto per guadagnare qualche punto nei sondaggi (come ha fatto Salvini, rischiando di buttare a mare una concreta riforma fiscale e forse non solo) fa parte della peggiore cassetta degli attrezzi del populismo.
I liberal-democratici non si lasciano irretire dal fascino delle oligarchie o dei regimi autoritari, siano essi russi, cubani, turchi o cinesi. Sono genuinamente convinti che la peggiore delle democrazie sia sempre preferibile alla migliore delle non-democrazie. Poteva, forse, sembrare pleonastico qualche settimana fa. Ma quanto sta accadendo in Ucraina ci dimostra che le due offerte politiche attualmente prevalenti sono ben lontane dall’aver espulso ogni elemento che non abbia pienamente accettato l’adesione senza se e senza ma all’atlantismo delle democrazie liberali. Abbiamo infatti assistito, sgomenti, da una parte alle posizioni dell’Anpi e di Petrocelli, e dall’altra alle ben note timidezze di Salvini ogni volta che si parla di Russia. Seppur innamorati della democrazia a tutti i costi, i liberal-democratici non abbandonano il sogno di migliorare la qualità di quella italiana, rinnovando profondamente sia l’architettura istituzionale che le regole del funzionamento dell’offerta politica; rendendo il sistema elettorale un elemento stabile di una democrazia matura e non – come è stato negli ultimi decenni – un esercizio di fine legislatura per massimizzare il numero di seggi di questo o quel partito.
Da trent’anni l’Italia si è illusa di poter diventare una democrazia bipolare. Ma ha fallito, sia perché non ha mai avuto il coraggio di adottare regole elettorali compiutamente maggioritarie sia perché non ha costruito offerte politiche culturalmente attrezzate, internazionalmente riconosciute e politicamente coerenti. Per 20 anni l’offerta politica si è divisa tra berlusconiani e antiberlusconiani: i primi hanno ben presto abbandonato il sogno della “rivoluzione liberale” ed erano tenuti insieme da una fantasiosa avversione ai “comunisti”; i secondi erano tenuti insieme da una chiarissima avversione a Berlusconi, ma solo da quella e assolutamente nient’altro, come si è visto sia nel 1996 che nel 2006. Negli ultimi dieci anni, poi, è arrivato il populismo, a dare il colpo di grazia non solo a quel fragile bipolarismo ma anche alla (ri)costruzione di una cultura politica e al necessario percorso di formazione, selezione e ricambio di una classe dirigente degna di questo nome.
Gli ultimi dodici mesi della legislatura più pazza del mondo forniscono l’opportunità, forse l’ultima, di costruire una forza politica che sappia parlare al cuore e alla mente degli italiani, e dir loro finalmente la verità: che la globalizzazione ha reso necessari cambiamenti profondi, ma dai quali risulterà un’Italia più giusta e più efficiente. I liberal-democratici non hanno nulla da perdere, se non le loro catene di un bipolarismo fallito. E hanno un paese da guadagnare.