La guerra non è un diversivo, cui posporre le altre cose. Produce un danno enorme, cui si dovrà rimediare. Restare fermi a guardare non è consentito, ma è quello che gran parte del mondo politico si sta consentendo. La guerra dovrebbe aiutare a mettere nella giusta scala le partite aperte all’interno, rimpicciolendone la portata a confronto con le tragedie che accompagnano la criminale aggressione russa. Invece pare che sia utilizzata per far diventare gigantesco qualsiasi ostacolo alle riforme, con la pretesa che qualsiasi cosa sia divisiva si debba discuterla in un giorno del poi, che somiglia a quello del mai.
I dati del 2021 hanno confuso le idee a certuni, come se il nostro problema fosse stata solo la pandemia, superata con uno slancio superiore a quello di altri europei. La crescita del prodotto interno lordo, quell’anno, è stata impetuosa e non possiamo che compiacercene, ma guai a dimenticare che conteneva anche il rimbalzo per una recessione che da noi era stata più brutale che altrove, mentre cresceva più di noi anche chi era decresciuto meno. E se avevamo preso la botta più forte non è perché da noi c’era stato un virus diverso, ma perché venivamo da trenta anni di crescita striminzita, mentre il Mondo galoppava. Per non parlare della produttività, rimasta inchiodata. Dobbiamo porre rimedio a questa roba, non attendere che finisca la guerra. Dobbiamo farlo nel mentre la guerra spezza le gambe alla crescita, perché altrimenti resteremo ancora pericolosamente indietro quando si riprenderà a correre. Ci siamo ripresi perché protetti dalla diga europea e perché l’annuncio degli ingenti capitali di cui avremmo potuto disporre ha messo nel giusto stato d’animo. Ma siamo fermi sul fronte meno costoso economicamente, ma più impegnativo culturalmente e politicamente, quello delle riforme. Fermi per l’insufficienza cognitiva della politica e per l’assecondare l’illusione che ogni vita, ogni bisogno, ogni fallimento possano essere messi in conto allo Stato.
Eppure quello è l’andazzo, se solo s’osserva che stiamo accapigliandoci, con l’aria di non volere stravolgere un mondo funzionante, sol perché si pensa di cambiare due cosucce in un Consiglio superiore della magistratura descritto dai suoi abitanti come un luogo di spartizione e politicizzazione, autogovernante una giustizia fra le peggiori del mondo civilizzato. Ed è questo il punto sconvolgente: ci teniamo la giustizia civile che fa scappare aziende e investitori nel mentre tortura per anni condomini in lite, ci teniamo una giustizia penale che arresta gli innocenti e scarcera i condannati, il tutto in omaggio al potere di una corporazione numericamente ed economicamente insignificante rispetto agli abitanti d’Italia e agli interessi compromessi. Si dirà: sono potenti. Ma non è vero. È forse il potere dei docenti che impedisce di mandar via gli incapaci? Qui ci si lamenta perché in un concorso si bocciano quelli che non passano i test. Eppure premiare la qualità sarebbe una soddisfazione per moltissimi insegnanti e penalizzare la sciatteria e l’incapacità sarebbe nell’interesse dei più numerosi studenti e delle loro famiglie, se solo capissero che una cattiva preparazione è il preludio a una vita più povera. E, in ogni caso, gli interessati alla carriera senza selezione sono infinitamente meno numerosi degli interessati a una buona scuola. Allora, perché?
Perché scarseggia il comune sentire dell’interesse collettivo e abbonda la rappresentanza dei particolarismi miserabili e immiserenti. Tutto questo per dire: non possiamo perdere tempo e non possiamo perdere l’occasione, ma se ci riuscissimo la responsabilità non sarebbe sempre di altri, non della sola politica, sarebbe nostra che l’abbiamo così selezionata, dell’Italia che funziona, crea, innova, esporta e cresce, ma non ritiene di voler dedicare molto alla casa e causa comune. Di questa politica, invece, si ha molto bisogno.
La Ragione