L’esercito russo non è un’organizzazione militare per la difesa statale ma un sistema di potere che ha per scopo il quotidiano rafforzamento e ampliamento del regime sovietico di Vladimir Putin.
Scriveva Anna Politkovskaja: «In Russia l’esercito – uno dei pilastri istituzionali dello Stato – continua a essere un campo di concentramento per i giovani che finiscono dietro il suo filo spinato. Un campo con relative norme di convivenza paracarcerarie imposte dagli ufficiali. Un luogo in cui il primo metodo educativo è quello di “stanarli e ammazzarli fin nel cesso” (il primo slogan che il neoeletto Putin ha usato per scandire la sua lotta contro i nemici all’interno della Russia)».
La giornalista, nata a New York nel 1958 e assassinata a Mosca nel 2006, sapeva molto bene che dicendo ad alta voce ciò che si pensa a volte si paga con la vita. È la libertà d’espressione: la prima di quelle libertà civili che nel nostro mondo libero molto spesso è usata non solo per dire sciocchezze ma anche per dir male dello stesso mondo libero in cui è riconosciuto lo stesso “diritto” alle sciocchezze.
Le avesse dette lei, Anna, ora sarebbe ancora viva. Invece, non solo diceva ad alta voce ciò che pensava ma scriveva anche in modo accurato, preciso e documentato ciò che accadeva in Russia e in Cecenia sedici anni fa e che oggi accade in Ucraina. Il libro più noto della coraggiosa giornalista è “La Russia di Putin” (Adelphi).
È un testo che è rivolto tanto ai russi quanto, e forse ancor più, agli occidentali. Infatti, in quel testo esemplare si fa un esercizio che in Occidente non si è fatto in passato e, tutto sommato, si stenta ancora a fare oggi con rigore politico e storico: non si ammira Putin ma lo si critica.
L’errore occidentale è stato questo: credere che a Mosca, dopo la fine dell’Urss, nessuno avrebbe più coltivato sogni di gloria e che un buon affare con Mosca valeva una messa. È proprio questo errore – il celebre «Parigi val bene una messa» di Enrico di Navarra – che la giornalista, più viva che mai, ricorda all’Occidente documentando uno per uno i crimini di Putin e la sua logica del terrore che soffoca ogni forma di libertà: «Non vogliamo più essere schiavi, an-che se è quanto più aggrada all’Europa e all’America di oggi. Né vogliamo essere granelli di sabbia, polvere sui calzari altolocati– ma pur sempre calzari di tenente colonnello – di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi».
Mosca non val bene una messa.