Solo un quinto delle 263 leggi approvate negli ultimi quattro anni è stato di iniziativa parlamentare. Ma si danno fondi agli allevamenti (anche se sono senza animali)
Solo un quinto delle 263 leggi approvate negli ultimi quattro anni è stato di iniziativa parlamentare. Il numero dei decreti legge (135) ha raggiunto la metà delle leggi approvate e su metà dei decreti legge è stata posta dai governi la questione di fiducia, per far cadere gli emendamenti, far votare il testo come approvato e compattare la maggioranza. Però, i decreti legge hanno registrato, nel corso del passaggio parlamentare, un aumento, rispetto al testo di base, del 70 per cento circa, sia in termini di commi, sia in termini di parole.
Anche le leggi di iniziativa governativa sono cresciute del 70 per cento in numero di commi e di parole (l’articolo 1 della legge di bilancio 2022 consta di 1013 commi). Però, i numerosi emendamenti parlamentari ai decreti legge e alle poche leggi di iniziativa governativa hanno quasi tutti una dubbia portata normativa.
I numerosi emendamenti parlamentari ai decreti legge e alle poche leggi di iniziativa governativa consistono, infatti, per lo più di singole decisioni di tipo amministrativo, come, ad esempio, il ripristino e la valorizzazione del patrimonio edilizio di Villa Candiani di Erba o l’indennizzo per allevamenti di animali da pelliccia «anche se non detengono animali» (in quest’ultimo caso, il Parlamento non ha neppure avuto timore del ridicolo).
Questi dati sono i segnali di una modificazione dell’assetto politico – costituzionale che si è prodotto negli ultimi anni, non imputabile a questo o a quel governo, e sviluppatosi già prima del 2018. Si tratta di un generale slittamento, per cui il governo è diventato il legislatore principale, il Parlamento si è trasformato in amministratore. Il Parlamento cede al governo la funzione legislativa, mentre sottrae all’amministrazione quella di prendere decisioni singole e puntuali. Se si aggiunge a questo l’altro fenomeno, della interferenza dell’ordine giudiziario nelle principali questioni nazionali, si comprende l’importanza dei cambiamenti in corso.
L’articolo 70 della Costituzione dispone solennemente che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle Camere», mentre ora essa è chiaramente deparlamentarizzata. Quello che il Parlamento perde sul piano normativo, viene da esso guadagnato adottando decisioni amministrative con veste legislativa. L’ordine giudiziario, a sua volta, ritenendosi padrone della funzione legislativa, protesta perché il Parlamento intende approvare una legge sulla giustizia che non proviene dalla magistratura. Insomma, nessuno dei tre poteri fa il mestiere che sarebbe chiamato a svolgere.
Questa deriva dell’assetto dei poteri al vertice, iniziata già prima dell’attuale diciottesima legislatura, modifica la «catena di montaggio» delle decisioni collettive ed ha implicazioni ed effetti importanti, creando ulteriori circoli viziosi.
La fabbrica delle leggi, spostata a palazzo Chigi, è nelle mani di magistrati e di funzionari abituati a scrivere sentenze che decidono singoli casi o provvedimenti amministrativi, e quindi degrada la legge da norma generale ed astratta in qualcosa di simile a sentenze o atti amministrativi. Questo impoverimento della legge presenta i suoi vantaggi, perché affronta immediatamente singoli problemi, dà al governo (che ratifica) l’idea di aver trovato la soluzione, anche se rende l’azione successiva sempre più difficile.
La legificazione delle decisioni amministrative, pur limitando o escludendo la discrezionalità amministrativa, è vista con favore dalla burocrazia, che è contenta di evitare responsabilità e di allontanare il pericolo di essere chiamata a rispondere alla Corte dei conti, all’Anac o alle procure penali. Ma danneggia i cittadini (che hanno minori possibilità di difendersi contro le leggi) e erode la democrazia (perché amministrare per emendamenti legislativi rende l’esercizio del potere meno visibile).
A questi circoli viziosi si aggiunge l’imprevidenza del sistema. La legge di bilancio 2022 richiede 160 regolamenti o altri atti di attuazione e i governi dedicano ogni fine d’anno al cosiddetto Milleproroghe, come se non fosse tra le facoltà degli umani di prevedere i tempi dell’attuazione delle proprie decisioni, in modo da fissarli una buona volta in modo definitivo.
Da ultimo, questo scambio di ruoli contribuisce al deperimento della politica, perché le forze politiche sono impegnate in un defatigante insieme di microprocessi e perdono le coordinate di fondo. Basta un esempio: perché sanità e scuola non riescono ad entrare nell’agenda politica, nonostante siano state ambedue sottoposte a una prova da stress che ne ha rivelato le debolezze (e la forza)?
Luigi Capogrossi Colognesi, in un acuto libro su la «Storia di Roma» (edito da il Mulino) ha messo in luce che la potenza dell’antica Roma cominciò a vacillare quando nella sua costituzione si insinuarono il principio della commistione dei poteri nello stesso soggetto e, nello stesso tempo, la scissione di uno stesso tipo di poteri, diviso tra soggetti diversi. Per evitare allo Stato italiano una simile deriva, bisogna rimettere ordine tra i poteri dello Stato, riconducendo ciascuno alla sua funzione primaria. Una proposta di legge costituzionale per l’istituzione di una Convenzione che ridisegni la seconda parte della Costituzione stabilendo il ruolo dei protagonisti è già stata presentata alla Camera dei deputati.