Volano parole pesanti, ma portando a bordo pensieri un po’ troppo leggeri. Aumentate i salari, intima il ministro del lavoro agli industriali. Piuttosto tagliamo il cuneo fiscale, replica stizzita Confindustria. Considerato che si tratta degli aspiranti contraenti di un “patto per l’Italia”, quello scodellato è un piatto pieno di niente.
Il lavoro è uno dei fattori produttivi. Il solo direttamente umano, quindi giusto avere un occhio di riguardo. In un mercato funzionante ciascun fattore produttivo è remunerato per quel che vale, correggendo eventuali squilibri che (inevitabilmente) si producono. Taluno ha notizia di lavoratori pagati troppo poco a fronte di succosi utili portati a casa dalle aziende? Non è questa la realtà, sebbene non sia escluso che in qualche caso capiti. Ciò significa che se si vogliono aumentare i salari occorre che ricorra una delle seguenti condizioni, meglio se entrambe: a. aumento della produttività; b. diminuzione della fiscalità. Il resto appartiene al mondo della fantasia, che utilizzata in politica si chiama: demagogia.
Aumentare la produttività non necessariamente (anche) significa lavorare di più. Ad esempio lavorare meglio. Per lavorare meglio c’è una parte che pesa sul lato dell’impresa, ovvero l’investimento in innovazione, e una parte che riguarda i lavoratori, ovvero la formazione. Lavorare in imprese con sistemi e prodotti vecchi o far lavorare personale dequalificato non aumenterà mai la produttività. Un sindacato che tuteli veramente l’interesse dei lavoratori sarebbe interessato all’innovazione e alla formazione almeno quanto alla busta paga. Se, come capita, non si trova personale qualificato per posti disponibili, la produttività cala. Il che esclude crescano i salari e gli utili.
Parlare di questo sembra essere complicato, sicché, alla fine, sono tutti concordi sul lato b.: abbassare la fiscalità. Solo che il lato b. fa, talora, perdere la testa e i tanti che lo dicono, mai omettendo di utilizzare l’abracadabra del “cuneo fiscale”, dovrebbero usare la cortesia di indicare quali prestazioni tagliare. Altrimenti il cuneo se lo trovano fra le meningi. Ma siccome anche questo comporta qualche complicazione e toglie la soddisfazione di dire cose tanto apparentemente giuste quanto totalmente inutili, ecco che si passa al reparto geremiadi: per le imprese e per i lavoratori l’inflazione fa salire i costi, ergo intervenga il governo e ristori. Formula perfetta e già sperimentata, trattandosi di quella che ammazzò la crescita economica dell’Italia, nel secolo scorso.
Suggeriamo di studiare con attenzione gli ultimi dati diffusi da Eurostat: in Italia lavora il 58.2% della popolazione attiva, contro una media europea del 68.4. Più di dieci enormi punti in meno. Non solo: nella media europea l’occupazione è già tornata sopra quella del 2019, pre covid, mentre in Italia siamo ancora sotto di 0.8 punti. E non basta: la velocità di recupero italiana, nel 2021, circa la crescita dei lavoratori, è pari alla metà di quella europea. Meglio non riportare i numeri relativi alle lavoratrici e ai giovani. Sta peggio solo la Grecia, ma con una velocità di recupero superiore alla nostra. Così andando la produttiva non cresce neanche nei sogni.
Allora, anziché darsi vicendevolmente del “ricattatore”, i sindacati dei lavoratori e datoriali (servirebbe anche la politica, ma per quello rivolgersi ai santuari) si prendano vicendevolmente per un orecchio e ragionino della messa in coerenza delle rivendicazioni e delle speranze con i piani del Pnrr e con gli investimenti a quelli legati. Va allargato il buco dell’imbuto che strozza l’accesso al lavoro, che va alleggerito dai costi insensati del non lavoro. Senza il privato che investa in innovazione e senza il lavoro che accresca la preparazione non si va da altra parte che nella pozza dell’assistenzialismo a debito. A quel punto ciascuno può aumentare quello che gli pare, tanto non vale nulla.
La Ragione