Aiuto!

Aiuto!

Il tempo ci scorre fra le mani, con il rischio di vederlo trascorrere senza aver fatto il necessario. Fin qui la tabella di marcia è stata rispettata. È un merito del governo. Ma la guerra ha cambiato l’agenda, innescando delle conseguenze. Da un lato l’ulteriore e ancor più grande merito di Mario Draghi è avere tenuto l’aggancio dell’Italia alla comunità occidentale. Le parole pronunciate ieri al Parlamento europeo ne sono ulteriore conferma. C’è riuscito perché non sostituibile e non disponibile a seguire le ubbie di parte della sua maggioranza, che prova a travestire da umano amore per la pace il disumano cedere a una dittatura. Il timore è che questo abbia un prezzo, sul fronte economico e sociale. E il ricomparire dei “bonus” è un segnale d’allarme.

Ovvio che la guerra richiede interventi specifici, affinché il lievitare dei costi delle materie prime non strozzi la crescita che si era bene impostata nel 2021. Ma l’attitudine ad attutire anziché affrontare e compensare anziché cambiare ce la portiamo dietro da prima. E alla lunga crea guasti notevoli.

Distribuire a pioggia gli aiuti ottiene tre sicuri risultati: non sono mai sufficienti, non servono a spronare la crescita e inducono a credere che se il governo volesse potrebbe essere tre volte Natale. Destinare un bonus a chi dichiara fino a 35mila euro di reddito significa considerare bisognosa una percentuale che, a seconda degli anni, va dall’85 all’87% di quanti presentano la dichiarazione dei redditi (cui si somma una buona metà dei residenti che neanche la presentano). Ad oggi 28 milioni di persone. Operazioni di questo genere, a parte i tre risultati già ricordati, alimentano un equivoco: chi finanzia l’aiuto a quasi il 90% della popolazione? I ricchi, ovvero il rimanente 10? I ricchi manco esistono, in quelle dichiarazioni e chi ha redditi lordi superiori a 50mila euro l’anno (che ci vuole fantasia per definirli ricchi) già finanzia tutti gli altri. Quei soldi alimentano il debito, contratto sulla testa di quegli stessi che incassano. E, per ora, Draghi e Franco tengono duro sullo scostamento di bilancio, che una muta di demagoghi reclama come conquista laddove sarebbe una sconfitta.

Non dubito che si debba intervenire per calmierare le bollette energetiche. Ma le accise sospese diventano un vizio, semmai si cancellino. Il prezzo di un bene è il segnalatore della sua scarsità, se lo si altera si modifica anche questa percezione. Siccome dovremmo consumare di meno, almeno per la parentesi temporale di un anno, tenere artificialmente basse le tariffe favorisce gli sprechi, ovvero allontana il risultato. Se la tariffa è strutturalmente sbagliata (lo è) la si modifica, non la si diluisce a carico del solito contribuente.

Possiamo anche festeggiare la risalita dell’occupazione al 59.9% della popolazione attiva, secondo i dati Istat relativi a marzo, ma è una mezza presa in giro. La settimana scorsa abbiamo documentato il ritardo italiano nel recuperare occupazione, rispetto alla media Ue (a inizio anno 58.2 Italia e 68.4 Ue). Non solo rimane, ma si allarga. Con quello stesso numero di occupati (oltre tutto con contratti diversi), tre anni fa avevano il 59% di occupati. Da dove arriva il restate 0.9? Dalla diminuzione della popolazione attiva. Con questa leva demografica avremo sempre meno persone al lavoro, quindi sempre meno sviluppo.

Nessuno ha mai pensato che il governo Draghi potesse risolvere tutto questo, ma cresce il timore che gli sia impedito di fare il possibile, che è già meno del necessario. Le riforme in cantiere sono utili, ma guardate la giustizia: un sforzo enorme per un risultato minuscolo. Altre cose vanno a rilento. Concorrenza rinviata. Tenere ferma la barra atlantica è vitale. Mollarla sarebbe immediatamente mortale. Ma se per farlo tocca pagare una sfilza di mancette a forze politiche incapaci di pensare al futuro, alla fine si sarà persa un’occasione che non si ripresenterà in tempi prevedibili. E di questo è giusto che ciascuno sia consapevole.

La Ragione

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