Ah, se non ci fosse il denaro! È questa l’esclamazione che sovente ascoltiamo da tante persone, che probabilmente imputano il dramma della condizione umana alla comparsa del denaro. Immaginano forse che, in un mondo privo di ogni mezzo di scambio, la vita recupererebbe la virtù e la generosità del buon tempo antico. Ma quell’epoca semplice e provvida non è mai esistita. Gli uomini hanno vissuto in società severamente gerarchizzate, in condizione di servi o di schiavi. Hanno dovuto patire la violenza e l’abiezione, carestie di ogni tipo, inarrestabili epidemie e la morte per la pur minima malattia. Quella del buon tempo antico, felice e non ancora corrotto, è solamente un’illusione, qualcosa che dal punto di vista storico e metodologico è totalmente insostenibile.
Si pensa spesso che il denaro sia uno strumento, introdotto surrettiziamente a proprio vantaggio, dalla malvagità di alcuni. Ma non ci si chiede se esso sia una necessità della vita sociale. Da prospettive diverse e in ogni caso con straordinario acume, la questione è stata affrontata da Carl Menger e Georg Simmel. Quest’ultimo ci ha spiegato che il “denaro è espressione e mezzo della relazione, della reciproca dipendenza degli uomini”, del fatto cioè che il “soddisfacimento dei desideri degli uni” dipenda “dall’interazione con gli altri”. Come dire che esso non trova posto solamente dove non c’è dipendenza, “perché non si desidera più nulla dagli altri uomini”. Per rinunciare al denaro, bisognerebbe quindi vivere in un mondo di esseri autosufficienti. Ma un tale mondo non avrebbe alcunché di umano.
Quel che più ci caratterizza è stato infatti generato dall’interazione, dalla cooperazione con gli altri. In una situazione di autosufficienza, non avremmo i modelli di comportamento e le istituzioni di cui oggi beneficiamo, che si devono esattamente al permanente rapporto con i nostri simili e non alla creazione di un’immaginaria mente isolata. Basti pensare che nell’isolamento il nostro cervello non potrebbe mai divenire una mente umana.
Menger ha richiamato l’attenzione sul linguaggio, la famiglia, la città, il diritto e ad altre istituzioni, nate certamente dai rapporti intersoggettivi, ma senza una previa programmazione da parte di alcuno. Sono un prodotto dell’interazione. Il denaro appartiene a tali istituzioni. I rapporti fra gli attori hanno lentamente fatto prevalere dei beni che hanno svolto una funzione intermediaria. E si è così passati dallo scambio diretto a quello indiretto. Non si è più andati all’immediata ricerca dei beni desiderati. A questi si è giunti dopo avere ceduto le proprie merci o servizi in cambio di un mezzo comunemente accettato, che è divenuto l’intermediario per conseguire quanto voluto. Il denaro non è dunque il prodotto dell’inganno posto in essere da alcune menti perverse.
È la risposta che il processo sociale ha dato al bisogno di ciascuno di avere un mezzo per tutti i propri fini. È stato ancora Simmel a definire “come la magna charta della libertà individuale (…) il fatto che il diritto classico romano abbia stabilito che a qualsiasi rivendicazione di carattere patrimoniale si potesse fare fronte con denaro”, sottraendosi così alla “servitù” di “carattere personale”.
Tutto ciò rende chiaro che, per la sua piena mobilitazione, la proprietà privata ha bisogno del denaro e che, senza l’una e l’altro, non ci può essere alcuna libertà individuale di scelta. Quando nella Ricchezza delle nazioni Adam Smith scrive che l’uomo “ha continuamente bisogno della cooperazione e dell’assistenza di un gran numero di persone, mentre la durata di tutta la sua vita gli basta appena a guadagnarsi l’amicizia di pochi”, vuole dirci che riusciamo a soddisfare le nostre necessità solo attraverso l’intervento di persone a noi sconosciute e che vivono lontane da noi. Senza il denaro, non potremmo intrattenere con loro alcun rapporto.
Il denaro serve allo scopo: allarga l’area della cooperazione e moltiplica il volume degli scambi. È l’apertura al mondo, l’attivazione di un gigantesco processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. E ciò permette, fra le altre cose, la più vasta realizzazione dei nostri fini.
Siamo quindi dominati dal denaro? Molti lo ripetono. Il denaro non può però agire da solo. Pensarlo equivale a reificarlo, farne cioè un soggetto distinto e autonomo rispetto a noi, configurarlo come un grande “cospiratore”, che ci riduce al rango di marionette. È comodo: perché ci solleva da ogni nostra responsabilità. Ma le cose stanno ben diversamente. Ad agire sono sempre gli uomini. Siamo noi a utilizzare il denaro per le più svariate finalità della nostra vita. Esercitiamo in tal modo la nostra libertà di scelta. E forse, proprio per tale ragione, il denaro viene esecrato. L’obiettivo da colpire è allora la scelta individuale. Ossia: la condanna del denaro nasconde una più profonda condanna: quella della libertà di scelta. Questa viene equiparata all’egoismo.
Il che apre le porte alla conclusione secondo cui, se quel che è individuale è egoistico e deprecabile, ciò che è collettivo è altruistico e meritorio. Tuttavia, poiché a decidere sono sempre gli uomini, ciò è falso e illogico. E non è prova contraria il fatto che, quando occupiamo delle posizioni pubbliche, siamo più disposti a spendere. Lo siamo semplicemente perché le risorse utilizzate appartengono agli altri. Dissipare quel che non è nostro, fare del presunto bene con il denaro altrui, è la cosa meno impegnativa del mondo. Ma scambiare la dissipazione delle risorse degli altri con la virtù costituisce una grave forma di daltonismo.
La teoria liberale ci ha insegnato ad affrontare la questione in termini completamente diversi. Il problema basilare della convivenza sociale non è avere uomini virtuosi. È impedire a ciascuno di noi, quando è al peggio della propria condizione, di procurare danno al prossimo. Con molta linearità, Adam Smith ci ha ricordato che la conoscenza delle regole della grammatica ci può far scrivere correttamente, ma non trasforma alcuno di noi in un grande scrittore. Ciò significa che non possiamo pretendere dagli uomini quel che essi non possono dare. Ognuno di noi ha delle proprie preferenze, che si possono realizzare solo tramite la cooperazione di altri. Quel che possiamo ottenere è che lo “scambio” sia volontariamente giudicato vantaggioso dalle parti coinvolte. Nulla di più. Ovviamente, ben vengano gli uomini particolarmente motivati o esemplari. Ma l’idea di riplasmare l’uomo è un’impresa disperata e crudele. Disperata, perché impossibile. Crudele, perché pretende di rendere obbligatoria la virtù, con tutto quel che segue e che la storia ha ampiamente sperimentato: non si ha la virtù e si perdono la libertà di scelta e il benessere. La scarsità, lo scambio e il conflitto sono inestinguibili. Il buon tempo antico è una mera fantasia. E chi la propone per l’oggi ci inganna e, probabilmente, ha bisogno di autoingannarsi.
Lorenzo Infantino, Il Foglio del 20 agosto 2016