Alcuni hanno bisticciato con la realtà, ma a preoccupare sono i tanti che ne hanno costruita una parallela, supponendo la storia sia non uno spartito da scrivere, ma una marcia al cui ritmo avanzare. Così s’è sollevata un’onda di critica acritica.
Sostenere che la recente sentenza della Corte suprema statunitense sia “contro le donne”, o dimostri che gli Usa e la loro Corte “odiano le donne”, non è solo arbitrario, ma ignora che a determinare quel risultato è stata anche una giudice donna. Cancella il fatto che le tre ultime nomine di giudici sono state fatte da un presidente eletto con milioni di voti, fra i quali milioni di votanti donne. Il fatto che si ritenga sbagliata quella sentenza (ci arriviamo) non comporta il poterla mettere nel conto di un sentimento anti femminile, perché in questo modo si operano due insensatezze: a. si pretendono inesistenti i voti delle donne che a quella sentenza sono favorevoli; b. si suppone che il sesso determini un modo di pensare, che è anche peggio, perché imputando ad altri una discriminazione di genere si istituisce una specie di prigione di genere.
E la radice dell’errore è ancora più profonda: si ritiene che la storia proceda in una direzione, dall’arretratezza al progresso, dal buio alla luce, dal peccato alla redenzione. Assumendo di potete stabilire, ora e per sempre, cosa sia il bene e cosa il male. Non solo la storia non corre sui binari che a taluni sembrano belli e giusti, ma nelle democrazie a determinare la direzione di marcia sono le maggioranze elettorali. E se va a votare sempre meno gente, quel compito sarà assunto dalle minoranze meno minoritarie. Non sta scritto da nessuna parte che le maggioranze abbiano sempre ragione, ma supporre che l’abbiano le minoranze è il modo migliore per demolire le democrazie. Il che non somiglia ad un pensare incline alla libertà e al diritto.
Si dirà: ma la maggioranza è favorevole alla regolazione dell’aborto, non a negarlo. Sarebbe (è) giusto e promettente. Ma questo comporta che vi siano forze politiche e proiezioni elettorali che incarnino quella maggioranza, perché in assenza il minimo che si può dire è che la maggioranza s’è dimenticata d’essere e farsi valere come tale, che le sue espressioni politiche si sono dimenticate di presidiare quel terreno. Mentre essere contro leggi che regolano l’aborto può non essere da me condiviso, ma questo non mi autorizza a ritenere incivili e dispotici quanti la pensano diversamente.
Veniamo al merito della sentenza. La statuizione precedente, ovvero la copertura federale di un diritto, era a sua volta frutto di una sentenza (1973). E le leggi, come le sentenze, possono essere ribaltate, altrimenti non avrebbe senso né votare né giudicare, in un colpo solo cancellando democrazia e diritto. In tanti anni di vigenza della precedente sentenza il legislatore è venuto meno al dovere (o alla voglia?) di tradurre la sentenza in legge federale. S’è fidato e affidato alla sentenza. Oggi che cambia se la prenda con sé stesso. Dietro questa nuova sentenza non c’è solo l’arroganza reazionaria, ma anche una scuola di pensiero, denominata “originalismo”. Secondo quella scuola la Costituzione è un testo, che va preso per quello che c’è scritto, non per quello che avrebbe inteso o quel che si dovrebbe leggerci. Si può discutere, ma difficile negare che abbia un fondamento. A ingannare è stata l’idea deterministica della storia, il progresso (o supposto tale) come unica traiettoria. Un pregiudizio che pensa di vestire i panni della (sola) morale e, in realtà, indossa i vestiti del moralismo.
(Un dettaglio tecnico: la Costituzione statunitense prevede che i giudici siano nominati dal presidente e restino in carica a vita. Se qualche giudice liberal vuol morire alla Corte e qualche suo avversario decide di dimettendosi prima di tirare le cuoia, va a finire che Trump ne nomina tre).
Le manifestazioni di piazza ricordano i tanti giovani che le riempirono dopo Brexit, nel Regno Unito: intervistati informavano di non essere andati a votare. Per il futuro, provino a ricordarsene. La democrazia è conflitto perpetuo, in cui ci di deve battere, non un destino su cui adagiarsi.
La Ragione