Il governo Draghi non è nato da un accordo fra i partiti che ne compongono la maggioranza, ma dalla loro incapacità di fare un accordo per trovarne una alternativa. È nato dall’incapacità politica, che aveva già provato le versioni più ardite del trasformismo. Ed è nato con due obiettivi:
- raddrizzare la campagna di vaccinazioni;
- predisporre ed attuare quanto necessario per la progressiva riscossione dei fondi europei. Su entrambi questi fronti il governo ha raccolto conferme e successi. Tutto si può sempre fare meglio, ma fino a quel punto era stato fatto largamente peggio.
La guerra l’ha imposta un criminale atto di Putin, ma anche su quello il governo ha tenuto la barra dritta, riproducendo la tradizionale politica atlantista ed europeista dell’Italia. Con una significativa novità: non si è trattato di un approccio rituale, ma convinto e coinvolto.
In ogni caso, anche su questo, la risoluzione di marzo, poi confermata, ha verificato la convergenza parlamentare della maggioranza, semmai allargandone i confini a Fratelli d’Italia. Dunque, qual è il problema?
È che mentre il governo procede compatto, le forze della sua maggioranza hanno perso identità. Non c’è una crisi del governo, semmai della sua maggioranza. Il professor Conte che lamenta Draghi parli anche con Grillo (forse più di quanto a lui non riesca fare) è un personaggio della commedia umana.
Ma non è che Forza Italia alleata di Salvini, nel mentre la Lega si riposiziona superando il salvinismo, oppure il Partito democratico, costretto ad utilizzare un vocabolario bucolico, misurando in acri i propri spazi politici, non è che siano messi poi così meglio. Diciamo che gli sbandamenti sono così vistosi che chi sta fermo e tace sembra quasi avere una linea e delle idee.
Tutte queste forze politiche, a dispetto dei partitanti, talora rozzi, che le abitano, dovrebbero concentrare l’attenzione su tre cose:
- mano a mano che il tempo passa e il Pnrr prende forma attuata, gli spazi di autonomia futura diminuiscono, chi governerà nella seconda metà del 2023 dovrà fare quel che si è impostato un anno o due prima;
- anche nel campo delle nomine il governo, dove siedono ministri di tutti i partiti della maggioranza, mica è un gabinetto privato di due o tre, sta procedendo mettendo in sicurezza il futuro immediato, o, se preferite, ipotecandolo, e se, per ipotesi, il governatore della Banca d’Italia dovesse dimettersi prima di ottobre, non potendo più essere confermato, dopo dodici anni, la cosa diventerà sempre più evidente;
- la sola cosa di cui i partiti dovrebbero occuparsi, in questo scenario, sono gli assetti istituzionali. Peccato che la sola materia su cui la loro competenza è esclusiva, sia anche quella che dicono apertamente di snobbare, affermando che “la gente pensa ad altro”. Sarà, ma forse perché suppone che ci stiate pensando voi. O, più semplicemente, perché è falso, dato che anche le decisioni economiche o di ordine pubblico discendono da un sistema istituzionale funzionante, altrimenti non vengono prese o restano parole inutili.
Se a questa materia non mettono mano, perdendo l’occasione di poterlo fare in una logica e atmosfera costituente, con netti limiti di modello, ma senza limiti di schieramento, se la lasciano in un canto è perché hanno paura.
Temono che non appena di questo si prenda a parlare emerga immediatamente che all’interno di ciascuna forza convive un’accozzaglia di identità diverse, incapace di farne una collettiva. Se non per negazione: vota “noi” per fermare “loro”.
Stanno assieme al governo, condividono (deglutendo storto) le scelte internazionali, impegnano le azioni dei governi futuri, assistono alle nomine che prefigurano gli assetti di potere, e sanno solo dire: vota “noi” per fermare “loro”.
Qualcuno pensa che il problema sia predisporre, per le prossime elezioni, il “partito di Draghi”. Non accadrà, anche se diversi proveranno a presentarsi tali. Il vero partito di Draghi non è una lista, ma la politica, fatta di idealità, competenze e proposte. Fossero tutti così la scena sarebbe interessante. Fossero.