Sono partiti male. Ma il problema non sono i dissidi e i livori, che possono passare. Il guaio è la sostanza politica, che rimane. E il guaio più grosso è che a pagarla non sarà chi i giornali individuano come sconfitto, né a guadagnarci quello che promuovono a vincitore, pagherà il Paese. Perché nella brutta partenza c’è la debolezza della maggioranza, del governo che va a formarsi e di chi lo guiderà.
Che le coalizioni fossero dei falsi, lo abbiamo sostenuto ben prima del voto. Non ho cambiato idea. A destra e a sinistra. Un parlamentare di Forza Italia, attento e conoscitore, Giorgio Mulé, osserva che ci sono problemi politici nella maggioranza. Impossibile non vederli, ma appena qualche giorno addietro, quando pubblicamente glieli indicavo, li negava. Ci sono. Ben più grossi di questo o quel posto da assegnare.
Molti italiani dicono: abbiamo votato, c’è una vincitrice, basta chiacchiere e che governi. Comprensibile, ma sbagliato: Giorgia Meloni non è vincitrice, ma trionfatrice, peccato che la maggioranza esiste solo se anche le altre due componenti ne fanno parte (o pensano di andare avanti negoziando trasfusioni, come per l’elezione del presidente del Senato? nel qual caso sono fritti in partenza). E l’accordo per vincere s’è dissolto nel gestire la vittoria.
Ignazio La Russa è stato ministro nei governi Berlusconi, non è una questione personale il mancato voto di Forza Italia. Che si è presentata agli elettori come garante dell’ancoraggio europeo e atlantico della coalizione, salvo poi votare per la presidenza di Lorenzo Fontana, avversario delle sanzioni alla Russia. Il che nuoce molto a Meloni, perché la garanzia offerta da FI era ultronea rispetto alle sue stesse parole, salvo essersi ritrovati assieme nell’avallare l’opposto. Che uno sia cattolico o meno, ultra o meno, è irrilevante. Che sia filo Putin è dirimente. Fontana ha detto che da quelle sue posizioni è passato del tempo.
Difficile immaginare affermazione più autodenigratoria. Ma difficile anche non cogliere quanto ieri sia stata minata la credibilità del futuro presidente del Consiglio. Che sarà tale, ricordiamolo, solo se avrà il consenso di chi non ha votato La Russa e di chi sta con Putin. E questo il giorno del varo, quando lo scafo si trova nel bacino protetto, senza i marosi economici e sociali, senza neanche avere cominciato la navigazione.
Certo che il ritorno al Senato, per Silvio Berlusconi, ha coinciso con una sberla. Ma il danno maggiore lo incassa Meloni. Un governo senza l’aggancio al Partito popolare europeo sarebbe un rischio enorme. Non solo per lei. Né Berlusconi nel chiederlo né Meloni nel negarlo possono pensare che tutto ruoti attorno alla collocazione di una persona.
Banca d’Italia ha rivisto le previsioni per il 2023: la crescita sarà allo 0.3% (nella Nadef, appena qualche giorno addietro, era allo 0.6), ma se cessassero le forniture di gas la recessione arriverebbe a -1.5%. Il 2024 è comunque in crescita, ma presupponendo l’applicazione del Pnrr e un governo che non si giochi in partenza le coperture europee che tengono in equilibrio i nostri conti. Ieri, invece, mentre Draghi era a Parigi per cercare alleati sul gas, contrastando Putin, la politica ha eletto un putinofilo e messo un dito nell’occhio agli alleati.
Ripartire si può. Ma se lo si interpreta come il verbo della ripartenza, non della ripartizione. Ora tocca a Meloni tirare fuori la sua rissosa coalizione dal buco in cui s’è ficcata già il primo giorno, tocca a Meloni stabilire se avvia un governo che sia fondativo di una destra di governo o se sta già pensando alla campagna elettorale.
Una carta l’ha nel mazzo: ascolti quel che Carlo Nordio ha da dire sulla riforma della giustizia e sul metodo delle riforme costituzionali. Perché se la partita sarà nazionale, allora potrà essere superato l’infelice debutto. Ma se sarà di parte, se mancherà di respiro e non saprà costruire consenso fuori dalla propria tifoseria, allora, tolti gli scarti, nel mazzo resta troppo poco.