Recedenti

Recedenti

Non è stupefacente che si vada in così pochi a votare. Non si tratta solo dell’ultima tornata, ma di una deriva in atto da tempo. Non è questione che riguardi questa o quella parte politica, ma la politica tutta. Altrimenti la frattura fra il discorso politico, in generale il discorso pubblico, e la realtà diventa davvero pericolosa.

Quando si fa cenno alla distanza fra “i politici” (che è già definizione indiscriminata, sicché qualunquista) e la vita di ogni giorno ci si riferisce, per lo più, al tema dei privilegi lontani dai bisogni. Ma è un approccio moralistico, inconcludente, cui il personale politico risponde provando a usare il linguaggio della “gente”, con ciò stesso comunicando che lo ritiene un frullato fra superficiale, rozzo e volgare. Tutta commedia, tutta fuffa. La frattura c’è, ma si allarga da un’altra parte, che è poi quella in cui si trovano tanti dei non votanti.

Il nostro discorso pubblico, che sia fatto dalla politica o dalla comunicazione, ha un vocabolario limitato ai disastri e alla miseria, corredato di concetti che cavalcano i soprusi e le ingiustizie. Siccome poi le cose non cambiano, trattasi di un gigantesco piagnisteo inutile. A questo si aggiunga che avendo un’intonazione rivendicativa, va a finire che, stando sempre sulle premesse e mai nel concreto, finisce con il rivendicare cose opposte. È invece sprovvisto di tesi, idee e suggestioni che maneggino il positivo, la crescita, il progresso. Vediamo perché e il danno che provoca.

L’intera campagna elettorale nazionale, che ha portato alle elezioni del settembre scorso, è stata condotta cantando i salmi della recessione. La gara era a chi si doleva e condoleva di più, a chi andava promettendo più aiuti e sostegni. Una congrega di recedenti. Ma mentre questo andava in scena, il governo Draghi, nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, avvertiva che la crescita 2022 sarebbe stata superiore al previsto e quella del 2023 pari a un +0.6%. Crescita meno sostenuta, ma pur sempre crescita. Che sarebbe l’opposto della recessione. Vabbè, ma Draghi barava per magnificarsi, gli altri che dicevano? Tutti (dalla Commissione Ue all’Ocse) segnalavano crescita, più contenuta, salvo il Fondo monetario. E tutti si sbagliavano, perché all’inizio dell’anno era già acquisito il +0.4% e ora le previsioni volgono verso un +0.8%. Siccome non ci sono né trucchi né miracoli è segno che l’Italia produttiva funziona maglio di quanto si creda, difatti a dicembre si raggiungeva il 60.5% della popolazione attiva occupata (che non è molto, ma lo è per l’Italia) e semmai il problema era ed è quello dei lavoratori mancanti.

Se non ci si tappasse gli occhi davanti a tutto questo ci si concentrerebbe sul cosa può essere fatto per rendere migliore la vita dell’Italia produttiva, sforzandosi di portare quel modello dove le cose non funzionano. Invece si parte dalle cose che non funzionano, le si erige a simbolo d’Italia e ci si pone il problema di come portare via soldi alla parte produttiva per finanziare l’improduttiva. Volete anche il voto?

Abbiamo discusso per settimane di regionalismo differenziato. Il governo ha varato un testo (campa cavallo), dicendo che più si delega e meglio funzioneranno le cose. Poi ne succedono due: a. alle elezioni per le preziosissime regioni non vanno che pochissimi; b. al Consiglio dei ministri di domani (giovedì) dovrebbe arrivare il testo di un decreto relativo al Pnrr, che centralizza competenze e responsabilità, in modo da non perdere il treno. Non conosco il testo, ma concetto corretto. Solo che è diverso da quanto sostenuto una settimana prima del voto.

Non è mica un problema del solo governo o della sola destra: è un costume generalizzato. Che presuppone l’Italia produttiva funzioni e pedali comunque, mentre i voti si vanno a cercare allargando la spesa pubblica corrente e spendendo parole di consolazione e rivendicazione. Così la frattura s’allarga, sentendosi traditi e presi in giro gli uni e gli altri.

 

La Ragione

 

Share